Pieve di San Cresci a Macioli

La Pieve di San Cresci a Macioli si trova nei pressi di Pratolino, Comune di Vaglia. Fu fatta costruire sul luogo che segnava il confine tra l’esarcato di Ravenna e l’Impero d’Occidente: viene citata per la prima volta nel 926. In stile romanico, internamente a tre navate, fu completamente restaurata tra il 1448 e il 1466 grazie alla famiglia Neroni. Tra il 1426 e il 1468 fu Pievano di San Cresci, Arlotto Mainardi, piu’ noto come Pievano Arlotto, prete che divenne assai famoso per le sue burle. Le sue facezie furono raccolte in un libro pubblicato dopo la sua morte da un ignoto amico. Per dire che tipo fosse basta ricordare cosa fece scrivere sulla sua lastra tombale, che si trova nella chiesa di Gesu’ Pellegrino a Firenze
Questa sipoltura a facto fare il Piovano Arlocto per se e per tucte quelle persone le quali drento entrare vi volessino (ossia – Questa sepoltura il Pievano Arlotto la fece fare per sé, e per chi chiunque altro ci volesse entrare).

 

Il Pievano Arlotto

Parroco della chiesa di San Cresci a Macioli, vicino a Pratolino, era celebre per le storielle che raccontava, per la sfrontatezza dei suoi gesti e la malizia venata di uno spirito boccaccesco. Personaggio amato dal popolo per la sua bonaria schiettezza, fu talvolta un problema per la curia vescovile, retta all’epoca dal pio Antonino Pierozzi che tento’ di redimerlo senza successo. E’ ritratto in diversi quadri, anche nei secoli successivi, a testimoniare la sua duratura fama cittadina. Per esempio Una burla del Pievano Arlotto e’ un quadro secentesco del Volterrano mentre un ritratto del faceto parroco e’ opera di Giovanni da San Giovanni, entrambi conservati alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Dopo la sua morte, un ignoto amico pubblico’ nella seconda meta’ del Quattrocento un volumetto intitolato I Motti e facezie del Piovano Arlotto, che da’ un vivido ritratto dal basso del contado fiorentino nell’epoca di Lorenzo il Magnifico, nel quale il registro faceto e, per il lettore odierno, piuttosto volgare, non soffoca pero’ i tratti autentici e umani di questi scherzi da prete. Un esempio di curiosa vicissitudine legata a questa figura e’ quella della tentata redenzione dell’Arlotto: un giorno l’arcivescovo, preoccupato dell’abitudine dell’Arlotto di frequentare le osterie, lo invito’ alla mensa dell’Arcivescovado per riportarlo ad una tavola piu’ adatta a un sacerdote. Ma poiché il Pievano Arlotto, tutti i giorni portava nuovi e sempre piu’ numerosi amici alla detta mensa, l’Arcivescovo fu costretto a lasciare andare il Pievano a mangiare e bere dove piu’ gli fosse gradito. Un’altra volta, in una notte di forte pioggia, di ritorno dal Casentino, si fermo’, completamente fradicio, in una piccola osteria presso la Consuma la quale era piena di gente ed era impossibile anche solo avvicinarsi ai posti accanto al fuoco, tutti gia’ occupati. Allora si rivolse all’oste con il tono di chi vuol parlare privatamente, ma anche farsi intendere da tutti, raccontando la disavventura di aver perduto dal carniere, dove si era fermato a orinare a qualche miglio da li’, la bella somma di quattordici lire e diciannove fiorini. Pian piano, a piccoli gruppi, i commensali si offrirono di uscire per cercare le monete ed il nostro Pievano non solo poté ristorarsi bello largo vicino al fuoco ma, per la compassione dell’oste, ebbe anche il conto abbonato. Fra i detti popolari nati dalla sua figura c’e’ il modo di dire Essere come la bandiera del Pievano Arlotto cioe’ fatta tutte di pezze rubate, oppure si diceva Ricevere la benedizione del Pievano Arlotto nel senso di stare in guardia poiché qualcuno stava per giocare un tiro. Pare infatti che l’Arlotto una volta benedisse la folla aspergendo olio invece di acqua benedetta. Da anziano trovo’ ospitalita’ nell’Ospizio per vecchi parroci (detto appunto dei Pretoni) che aveva sede presso l’attuale oratorio di Gesu’ Pellegrino a Firenze. Egli non smenti’ il suo spirito faceto neanche sulla lastra tombale (mori’ nel 1484), che fu apposta sulla sua tomba nell’oratorio al centro del pavimento appena dopo l’ingresso, dove fece scrivere: $p01 Questa sipoltura a facto fare il Piovano Arlocto per se e per tucte quelle persone le quali drento entrare vi volessino $p01 Figlio di Giovanni di Matteo di Mainardo, notaio fiorentino, rinchiuso piu’ volte nel carcere delle Stinche, e di madre ignota ma legittima, Arlotto nacque, probabilmente a Firenze, il 25 dic. 1396. Ebbe due sorelle, Lisabetta e Candida, quest’ultima monaca nel monastero fiorentino delle Murate. La sua formazione include studi di lettere e di aritmetica; incamminatosi inizialmente nell’esercizio dell’arte della lana, a 28 anni muto’ strada e prese i voti, pur mantenendo – dato anche il contesto in cui visse – una certa vocazione e un certo interesse per i rapporti di tipo economico, frequentissimi con le persone con le quali entro’ in contatto. Nel 1424 Martino V lo designo’ a capo della pieve di S. Cresci a Maciuoli, nel Mugello, succedendo alla non felice gestione di Jacopo di Bardo di Guglielmo Altoviti: ne fu responsabile fino al 1482. Il 3 marzo 1425 avvenne l’ordinazione al diaconato, nel duomo fiorentino, per mano dell’arcivescovo Amerigo Corsini. Il Mainardi, il cui nome “predestinato” deriva dal provenzale arlot, che significa “ribaldo, gaglioffo, vagabondo”, fu certamente dotato di ingegno acuto e di spirito intraprendente, qualita’ che bene lo introducevano nell’ambiente dei personaggi celebrati nell’epopea mercantesca della Firenze tre – quattrocentesca: basti pensare che allora la pieve rendeva appena 40 fiorini l’anno, mentre alla sua morte ne avrebbe reso circa 150. Il 12 nov. 1425 al beneficio parrocchiale del quale godeva uni’ la cappella di S. Andrea nel duomo di Firenze. Il suo comportamento attrasse, certo, l’invidia dei conoscenti e dei concittadini, sebbene un lato piu’ spregiudicato del suo carattere lo spingesse ad azioni non proprio esemplari: il 21 ag. 1431 fu punito insieme con altri cappellani per vari misfatti e, anni piu’ tardi, il 25 genn. 1449, dinanzi alle autorita’ ecclesiastiche fu accusato di vari reati tra cui la vendita delle campane della chiesa e la deflorazione di vergini. A confermare questo aspetto meno noto del Mainardi concorrerebbero le facezie 11 (il furto di quattro tinche), 14 (dove il protagonista inquina un pozzo pur di non lavare le scodelle a fine pranzo), 33 e 62 (Motti e facezie del Piovano Arlotto, a cura di G. Folena, Milano-Napoli [1953], d’ora in poi Motti), per quanto vi sia chi legge in questi episodi solo un pretesto per additare comportamenti immorali. Inoltre l’esclusione di alcune facezie dalla raccolta, che invece il Poliziano (A. Ambrogini) accoglie, e la menzione che ne fanno Lorenzo de’ Medici e Luigi Pulci contribuiscono a disegnare il ritratto di un personaggio non privo di pecche e vizi. Nel 1438 il M. era sicuramente fuori della Toscana e tra il maggio e il novembre 1450 si trovava a Fabriano, dove allora risiedeva il papa Niccolo’ V per via della peste che imperversava a Roma (citta’ che potrebbe aver visitato nel corso dello stesso anno giubilare). Instancabile viaggiatore, con l’incarico di cappellano della flotta mercantile fiorentina il Mainardi raggiunse le Fiandre, Valencia, la Provenza, il Regno di Sicilia, dove conobbe il re Alfonso d’Aragona, e Londra, citta’ in cui celebro’ messa su invito dell’arcidiacono della cattedrale e fece la conoscenza del re Edoardo V. Dei sette o otto viaggi attribuitigli nei Motti, ne sono documentabili solo quattro nelle Fiandre (1444 a Bruges, 1446, 1448 e 1456), dai quali ritorno’ con beni di commercio in metallo e lana. Malgrado non se ne conosca la specifica natura, ebbe scambi, soprattutto sul piano economico, con l’arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi, del quale si parla nei Motti 19, 36 e 147, almeno negli anni 1454-56. In seguito a opere gia’ avviate, intorno al 1460 intraprese gli interventi piu’ massicci di restauro della pieve di S. Cresci (terminati intorno al 1466), finanziati dai Neroni, patroni della chiesa stessa, e diretti da Giuliano da Maiano, lavori che hanno dato all’edificio l’aspetto attuale. Prima del 1473 raggiunse una certa stabilita’ economica, godendo di una rendita di 200 fiorini annui. Nel 1475 si reco’ a Roma per il giubileo: le varie spese furono coperte da Bartolomeo Sassetti, con il quale proprio nell’anno giubilare furono registrati frequenti rapporti di tipo economico. Il Mainardi mori’ a Firenze il 26 dic. 1484 nello spedale dei preti, “a ore 4 di notte” (Anonimo, Vita, p. 6), come recitava l’originaria lastra tombale (“Questa sipoltura a facto fare il Piovano Arlocto per se et per tucte quelle persone le quali drento entrare vi volessino”), posta a Firenze nell’oratorio di Gesu’ Pellegrino o dei Pretoni, della quale e’ conservato soltanto un rifacimento. La cosiddetta Vita che accompagna i Motti, dedicata a un destinatario sconosciuto, e’ un’aggiunta dell’anonimo raccoglitore, inserita con scopi moralistici, per evidenziare e idealizzare le doti caritatevoli e filantropiche (che pure il M. sicuramente aveva, stando al compassionevole atteggiamento storicamente provato verso i suoi lavoratori), la duttilita’ del carattere (“solo attese al suo officio con diligenzia ed essendo di buona coscienzia attendeva con tanta carita’ alla cura delle anime che tutti li popolani assai lo laudavano”), ma soprattutto per smentire le facezie piu’ lascive che intorno al M. circolavano. Un numero discreto dei protagonisti inclusi nei Motti entro’ in rapporti con il M. – come e’ stato possibile appurare in seguito a recenti ricerche d’archivio dovute soprattutto a Kent e Lillie -, quali Bartolomeo di Tommaso Sassetti (che menziona il M. nelle sue Ricordanze scritte tra il 1440 e il 1477), con il quale coltivo’ una sincera amicizia, fungendo spesso da mediatore negli affari degli amici borghesi e come arbitro di dispute (cfr. Motti, 34, 36, 117 e 147). Viene menzionato anche nel diario di Guido di Francesco Baldovinetti, come arbitro tra il Sassetti e un vicino: conobbe realmente Francesco Dini, Antonio Picchini, il quale, come accade in Motti 49, effettuo’ un compromesso tra il M. e un’altra persona, e Falcone Sinibaldi, che piu’ di una volta, a Roma, offri’ ospitalita’ al Mainardi. Molti degli episodi narrati nei Motti trovano una certa corrispondenza con documenti archivistici e ricordanze: si puo’ affermare che il M., dunque, visse in un contesto del tutto simile a quello descritto negli stessi Motti. Ebbe certamente la capacita’ di muoversi con naturalezza tra un livello sociale alto, interagendo con sovrani e con la famiglia de’ Medici, e uno piu’ basso, quello dei contadini e degli uomini che frequentavano la chiesa e le taverne, con un’umanita’, insomma, che nonostante le distinzioni sociali era in continua osmosi. Risulta tuttavia arduo e azzardato ricostruire esclusivamente dai Motti la biografia di una persona presto divenuta personaggio, in una citta’ come Firenze – dove la cronaca spicciola con facilita’ diveniva aneddoto e racconto – nel modo in cui, per esempio, nel Settecento fece il Manni. Attribuiti al M. sono i celebri Motti e facezie, scritti da un suo amico deliberatamente rimasto anonimo, la cui figura emergerebbe soltanto in circa diciassette facezie, che gravitava nell’orbita dei mercanti o del notariato di Firenze e che in qualche modo doveva rapportarsi anche con i letterati della cerchia medicea. La novita’ introdotta dai Motti consiste, secondo uno schema mutuato dalle biografie di stampo umanistico, nel porre al centro, in un libro di facezie, la vita del M.: “la centralita’ di un personaggio unico, intorno al quale e’ costruito il libro faceto, comporta lo spostamento del baricentro ideologico-stilistico dalla cornice alle facezie, anzi la funzione di sutura tra i singoli pezzi della raccolta, tipica appunto della cornice, viene di fatto disinnescata, essendo ora la coesione testuale affidata alla struttura biografica su cui poggia l’opera” (Pignatti, p. 59). I Motti furono redatti tra il 1450 e il 1470. L’anonimo raccoglitore fece incrociare vicende biografiche con temi e tropi della narrativa trecentesca toscana, in particolar modo del Decameron, del Trecentonovelle di Franco Sacchetti, del Liber facetiarum di Poggio Bracciolini, del Pecorone di ser Giovanni Fiorentino, del Dialogo di Marcolfo e Salomone. La particolarita’ della raccolta consiste, inoltre, nella riproposizione di materia alta, appartenente a una letteratura d’élite, in una veste adatta a una fruizione da parte di un circuito piu’ ampio, ravvivata da un colorito lessicale che risente del vernacolo toscano, testimonianza preziosa per gli storici della lingua, e dalla presenza di usanze e modi e riferimenti paremiologici utili anche per gli studiosi delle tradizioni popolari; tuttavia in molti luoghi le pagine sono caratterizzate da una certa poverta’ stilistica e dalla mancanza di attenzione verso la descrizione di alcuni personaggi, dei quali si menzionano soltanto i nomi. Il M., come si diceva, e’ protagonista e non autore dei Motti, malgrado non sia improbabile che un antichissimo nucleo della raccolta possa essere nato da quel registro che il M. stesso teneva, nel quale erano annotate le circostanze piu’ curiose occorsegli. Prima che il libro fosse completato e diffuso, almeno le prime 80 facezie – sicuramente piu’ vicine ai dati biografici del M. (anche se la facezia 5 e’ ricalcata su una braccioliniana), prive di toni moralistici e risalenti ad avvenimenti anteriori al 1482 – dovevano costituire un nucleo iniziale compatto e unitario, che fu utilizzato da Poliziano per i suoi Detti piacevoli. Del M. parla Lorenzo de’ Medici nel Simposio (VIII, vv. 25-48) e Pulci lo ricorda sia nel Morgante come ghiottone (XXV, vv. 217-220) sia nella frottola risalente al 1466 I’ vo’ dire una frottola (vv. 82-84). Se, pero’, finora proprio Pulci e’ stato considerato l’autore in cui appare la prima citazione del M. in un testo letterario, forse un riferimento antecedente e’ ravvisabile addirittura nei versi del Burchiello (Domenico di Giovanni) indirizzati a Stefano Nelli (ante 1449): “Que’ gatti ti dovetton far messere / e porti in sedia in mezo del camino, / e ‘l piovano ch’e’ quivi tuo vicino / son certo che vi venne a rivedere” (I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino 2004, LXXXII, vv. 5-8 e n.). La fortuna del personaggio fu indubbiamente notevole, anche se la tradizione popolare, sminuendo la figura e la portata dei Motti, ridusse il M. a una sorta di buffone. Il suo nome e’ inserito, come auctoritas, in numerosi wellerismi, espressioni e locuzioni, che superano i confini della Toscana; nel manoscritto Palatino, 1107 della Biblioteca nazionale di Firenze si trova anche un inedito capitolo ternario che corre sotto il suo nome (Carissimo padron m’importunate). Il trevigiano Giovanni Battista Bada scrisse Il Piovano Arlotto, un poema di dieci canti in dialetto veneziano (Venezia 1796), mentre nell’Ottocento videro la luce riviste come Il Piovano Arlotto. Capricci mensuali d’una brigata di begliumori con note di Succhiellino cherico (Firenze 1858-60), Il Piovano Arlotto (Firenze 1874), Il Piovano Arlotto (Genova 1877). Giuseppe Guerrazzi utilizzo’ addirittura il M. con fini politici nell’opuscolo Messer A. M. piovano di S. Cresci a Maciuoli (Livorno 1863), e ispirata ai suoi motti e alle sue facezie e’ la commedia in vernacolo di Giulio Bucciolini Il Piovano Arlotto (rappresentata nel 1910) e rielaborata in seguito con il titolo Le burle del Piovano Arlotto (1922). Gli studi condotti sul testo, soprattutto grazie ai chiarimenti di Mastroddi, lasciano supporre che, vivendo ancora il M., circolasse a Firenze una redazione originaria che includeva anche altre facezie che evidenziavano la natura piu’ mondana del protagonista. Successivamente alcune facezie sarebbero state escluse per lasciar posto ad altre, piu’ edificanti. È quindi probabile vi sia stato piu’ di un raccoglitore e che il testo si sia sviluppato su vari strati dei quali e’ difficile, a oggi, discernere con certezza i minimi passaggi. Dopo la morte del M. un anonimo amico, in un periodo che possiamo circoscrivere all’incirca fra il 1485 e il 1488, redasse una raccolta di Motti e facezie accompagnata dalla Vita. A un primo nucleo di 80 facezie se ne aggiunse un secondo (81-174), attinto essenzialmente dalla tradizione novellistica toscana (Sacchetti) e delle facezie (Bracciolini): il M. fu cosi’ privato dell’identita’ storica e divenne l’esempio del perfetto e ibrido connubio tra personaggio reale e proiezione letteraria. La stratificazione testuale e l’ipotesi di molteplici redazioni giustificano la mancanza di omogeneita’ stilistica della raccolta. In un terzo momento, dopo la morte del M., forse a opera di un’altra mano, per lasciare alla posterita’ il ritratto di un personaggio piu’ edificante in senso religioso e per completare la figura del M. come filosofo, si aggiunsero altri motti (175-192 e 202-217) ricorrendo passivamente e in maniera sbrigativa a un florilegio intitolato Libro de la vita de’ filosofi e delle loro elegantissime sentenze extracto da Diogene Laerzio e da altri antiquissimi autori, che non e’ altro – come ha mostrato Cherchi – che un volgarizzamento del Liber de vita et moribus philosophorum, che a Firenze circolava proprio in quegli anni e il cui autore era il filosofo Walter Burleigh, vissuto tra il 1275 e il 1357. La tradizione manoscritta e quella a stampa mostrano chiaramente il carattere composito dell’opera. Esistono due codici: il piu’ antico – di cui ha dato notizia Petrocchi nel 1964, dopo piu’ di dieci anni dalla pubblicazione di Folena – e’ l’inedito Ottob. lat., 1394 della Biblioteca apostolica Vaticana, trascritto tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento, privo della terza parte e dall’aspetto piu’ marcatamente popolareggiante; questa terza parte, invece, e’ presente nel codice conservato a Firenze, Laurenziano, XLII. 27, copiato tra il 1537 e il 1540 da Giovanni Mazzuoli, detto lo Stradino, per conto di Lucrezia Salviati. L’editio princeps, in cui si legge un testo rimaneggiato e dalla quale derivano le edizioni successive, fu curata a Firenze, per Bernardo Zucchetta, da Bernardo Pacini con il titolo Motti et facetie del Piovano Arlotto prete fiorentino piacevole molto (priva di data, si e’ concordi nel collocarla tra il 1512 e il 1516). Nell’Ottocento furono edite in modo approssimativo Le facezie del Piovano Arlotto, precedute dalla sua vita e annotate da G. Baccini (Firenze 1884), ma il testo su cui oggi si basa la lettura e’ Motti e facezie del Piovano Arlotto cit. (2a ed., Milano-Napoli 1995, con aggiornamento bibliografico di T. Zanato).