Bindino

A Bindino, località situata sopra Lucciano di Quarrata, si trovavano le cave di pietra serena: da questa località passava il Muro del Barco Reale Mediceo. Il lavoro dello scalpellino, soprattutto sul Montalbano, appartiene al passato: a Bindino fino agli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento vi lavoravano novanta scalpellini, come testimoniato da Enrico Baldacci, nato e residente proprio in questo luogo. Un tempo qui si trovavano le baracche che servivano da spogliatoio, mensa e luogo di lavoro durante le giornate di pioggia, gli stanzini dove

Mura del Barco Reale a Bindino 1
Foto di Damino (Roberto Innocenti)

venivano riposti i mazzuoli, mazzette, subbie, scalpelli e metri (e poi ancora righe, squadre, sesti e modani, le bocciarde, gradine e martelline. Proprio per l’ estro e la capacità di esecuzione di numerosi lavoratori, i manufatti delle cave di Bindino avevano assunto grande rinomanza. Nelle cave si lavorava dalle otto alle dieci ore al giorno e gli scalpellini erano divisi in categorie o classi, ognuno con uno stipendio diverso. Si andava dalla “primissima”, alla quale appartenevano gli specialisti, i capibranca, i lavoratori di fino, che nel 1914 guadagnavano da 45 a 55 centesimi l’ora (nel 1906, quando le paghe erano diventate orarie, erano attorno ai 30) per passare poi ai lavoratori di prima, caporali e scalpellini abili, pagati tra i 40 e i 45 centesimi. Alla seconda classe appartenevano gli scalpellini, i cavatori e gli incisori di lettere di secondaria importanza, che guadagnava da 35 a 37 centesimi (28, nel 1906). C’erano poi i cavatori e gli scalpellini di età avanzata (invecchiando, si veniva infatti pagati di meno), che prendevano da 28 a 34 centesimi l’ora (26 nel 1906) per finire ai “bardotti”, che a seconda delle capacità venivano pagati dai 18 ai 28 centesimi. Quest’ultimi erano più o meno dei manovali e in gran parte ragazzi, visto che anche nelle cave il lavoro minorile era assai diffuso. Gli incidenti certo non mancavano. Ma un altro grande nemico degli scalpellini era la silicosi. Quella polvere finissima che si depositava nei polmoni non era sconosciuta, ma scarsissimi erano i metodi per combatterla. Il Targioni – Tozzetti scrive alla fine del Settecento: “quando gli scalpellini hanno necessità di spaccare i massi a forza di subbie e di cunei avvertono sempre di versare dell’acqua nella fessura dove forzano i cunei, perché altrimenti volerebbero in alto certa polvere finissima che offenderebbe i loro polmoni.
“Croce di Idamo”
Circa un km. oltre Bindino, proseguendo verso il crinale del Montalbano lungo l’antica strada che portava alla Località de Le Croci, nei pressi del Fosso noto come Rio del Meriggio, si trova una vecchia croce che ricorda un triste episodio qui avvenuto il 9 ottobre del 1955. Un uomo che stava raccogliendo castagne, Idamo Colligiani, venne ucciso da un colpo di fucile sparato per errore da un cacciatore rimasto ignoto (anche se i sospetti su qualcuno c’erano), il quale pensò bene di dileguarsi lasciando Idamo a morire. Episodio tristissimo, ricordato con una croce che ancora resiste da allora. La vedova di Idamo, signora Aquilina Toni, è deceduta il 26 marzo 2022 all’età di 100 anni, dopo 67 anni di vedovanza.

Croce di Idamo 1 Foto di Aldo Innocenti
Croce di Idamo 2
Foto di Aldo Innocenti

La località di Bindino è facilmente raggiungibile da Lucciano: bisogna imboccare Via di Maone, strada che parte verso il crinale del Montalbano a metà strada fra la Fattoria Spalletti e il paese di Lucciano. Passati sotto un arco tra le abitazione (località Branchetti) si prosegue in salita lungo la strada asfaltata, che ora diviene Via di Bindino, e la si percorre in salita fino al suo termine. Per raggiungere la Croce di Idamo bisogna proseguire ancora in salita lungo la sterrata: al primo bivio che s’incontra si va a sinistra e al successivo bivio si va ancora a sinistra in falsopiano. Si raggiunge il Fosso del Meriggio nei cui pressi si trova la croce.

“Barco Reale Mediceo”
Il Barco Reale Mediceo venne realizzato nel XVI secolo e costituiva una delle più importante riserve di caccia della famiglia dei Medici: il toponimo barco stava ad indicare un terreno boschivo circondato da un recinto, in questo caso un territorio delimitato da un robusto muro al cui interno di trovavano tante specie di animali da poter cacciare. Il muro di questa bandita partiva da Poggio alla Malva, dove ancora oggi si trova la Porta d’accesso, raggiungeva Vitolini, Mignana, Faltognano, Papiano, sfiorava San Baronto, aggirava il Montalbano

Mura del Barco Reale a Bindino 2
Foto di Damino (Roberto Innocenti)

spingendosi sul lato nord oltre il Colle di Montefiore, arrivava a Montemagno (nei pressi del cimitero di questo paese, lungo la strada che conduce a Lucciano, si trova ancora la casa del guardia del Barco), sfiorava Campiglio e Villa la Magia, risaliva subito al di sopra degli abitati di Lucciano, Montorio e Buriano, raggiungeva Spazzavento, oltrepassava a nord il borgo di Bacchereto, superava Santa Cristina a Mezzana e, infine, raggiungeva Artimino, dove si trova la grande villa La Ferdinanda, che era la residenza di caccia dei Medici, e Poggio alla Malva. I lavori di costruzione del Barco Reale iniziarono nel 1624 e terminarono nel maggio del 1626 sotto il regno di Ferdinando I: il muro di recinzione, costruito in  pietre di arenaria e arenaria macigno di dimensioni molto grandi, legate con calce, ed era dotato di cancelli e piccoli ponti per il passaggio delle acque, ma, mentre i cancelli sono del tutto scomparsi, restano ancora piccole tracce dei ponti e cateratte. Le mura delimitavano una grande estensione di terreno, circa 50 km. di cui ne restano tracce per 30 km., al cui interno si trovavano numerose fattorie come quella di Ginestre, di Artimino e molte case abitate dalla Guardie e dai Birri (vedi il Casino dei Birri sul monte Pietramarina), sorveglianti del barco che avevano il compito di tutelare il patrimonio faunistico e boschivo della tenuta. Esistevano, infatti, delle regole molte rigide riguardo la caccia, il taglio dei boschi e il mantenimento delle mura. Con l’avvento dei Lorena nel 1738 il barco fu soggetto ad uno sfruttamento più razionale: la gestione diretta delle fattorie granducali venne affidata agli affittuari che avevano il compito di anticipare la rendita al proprietario. Sempre ai Lorena si deve la suddivisione del barco in dieci parti, chiamate decimi, per la rotazione dei tagli degli alberi, e la realizzazione di una pianta del perimetro della bandita attribuita a Bernardo Sgrilli. Tale planimetria dettagliata fa capire che nella alla metà del Settecento l’interesse per il barco era esclusivamente legato al commercio del legname: dopo la seconda metà del XVIII secolo, per la diminuita richiesta di legname e per i costosi lavori di manutenzione necessari, il barco venne dimenticato. Il granduca Pietro Leopoldo tentò di ripristinare il barco, ma venne fermato nelle sue intenzioni dalle ingenti spese che si sarebbero dovute affrontare: così il 13 luglio 1772 giunse inevitabile la sbandita del Barco Reale, che decretò anche la vendita della fattorie in esso contenute e la demolizione di alcuni tratti delle mura. Nell’ottocento, poi, le pietre del barco vennero usate per delimitare poderi e terreni privati: così oggi non sono molti i tratti visibili, tra i quali anche quelli che passano per Bindino.

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