Autore: Dr. Franco Antonelli   –  email:  antonelli(AT)gmx.net

LA CASETTA DEL MONTANILE

Arrivò il momento tanto temuto. I tedeschi rastrellavano uomini validi al lavoro per le loro industrie pesanti, su, in terra di Germania. Fabio, Demetrio e Tonino stavano occhiolinando da dietro la montagna di travi per binari e tavole accatastate alla stazione ferroviaria di Sanmommè. Uomini in fila, con pacchetti e coperte arrotolate tra le mani, si avviavano ai carri merci, badati da soldati in uniforme del Reich. Videro incolonnato anche l’amico Ugo, che, come loro, uomo non era: provarono il brivido della paura, sconosciuto ai loro animi di tredicenni, Demetrio un po’ di più.
E decisero. Le mamme se li strinsero al petto, con struggimento vero, ma li lasciarono andare per la montagna, per le forre, per i balzi e le rocce di Baggio e dell’Acquifredola, liberi come nuvoli di tramontano. L’unico ad avere un’idea di dove andare era Demetrio, figlio dei pastori Michele e Fortunata, nato a Mengarone, terra già montanina, non più di pianura: aveva accompagnato spesso i suoi genitori a badare le pecore su ai pratoni all’alpe. La mulattiera di Chiappore li stava facendo sudare, andavano silenziosi, pur con le scarpe chiodate; gli scarponi pesanti nello zaino, con maglie, farina gialla, mele, calzini, marmellata, sapone, mutande e pensieri, infiniti pensieri…
La luce aveva invaso il cielo da poco, era una bella giornata, fresca e pulita, autunno da favola. “Ma sei sicuro che ci sia gente lassù?” Fabio fu il primo a interrompere il silenzio monastico e puro dell’ottobre appena svelato. La domanda era per Demetrio, capo riconosciuto e guida dei due ‘cittadini’ sfollati al casone del Breschi. “Ci sono, ci sono, i partigiani sono tutti lassù, nei boschi del Poggione, ai Trogoli, su per l’Orto di Corso, chi vuoi che li trovi in quei grotti? Chi non ha voluto andare in Germania… lo vedrete, non saremo soli.” Erano agli ultimi olivi, piante magre, poi sarebbe stata montagna vera. Tonino vide svolazzare in terra, s’avvicinò e chiamò i compari. Uniti, osservarono il tordo preso al laccio che si dibatteva dando l’anima nell’ultimo respiro. Fabio protese le mani in suo aiuto, ma Demetrio lo fermò, guatando in giro. A due metri un altro tordo esanime, allacciato al collo; poco più in là un altro e un altro ancora, e un merlo, anzi due. “Ragazzi siamo in mezzo a una tesa, state attenti…”
Non aveva pronunciato che poche parole, una voce dura sibilò da dentro il ginestraio impenetrabile. “Fermi, vi guardo, state fermi sennò vi sparo, state fermi, non muovete i piedi, siete armati?” Rimasero impietriti, sudore ghiaccio al collo, brividi verso il coccige, roteando gli occhi, cercavano di penetrare l’alto erbaio frammezzato a stipa, mortella e albatri, sudicio di palèo. Si aspettavano che l’uomo uscisse da dove avevano udito il tremendo avvertimento, invece quello sbucò alle loro spalle. “Ma voi non siete Menico?” Domandò Demetrio credendo di aver riconosciuto la voce bassa e strascicata. “Fermo, non ti girare, stai dove sei o ti mando all’inferno dei bambocci… ma chi sei? Di dove vieni? Di chi sei figliolo?” “Sono di Michele e della Fortunata…”
“Allora tu sei fratello dell’Alma?” “Sì, meno male m’avete riconosciuto…” “Giratevi piano, senza muovere i piedi da dove siete, sennò mi sciupate tutta la tesa.” Brutto, brutto e sudicio, barbaccia ispida da cinghiale, pantaloni militari con una sola bretella in tralice, camicia rattoppata, magrezza di eremita costretto, una doppiettaccia a cani esterni tra le mani. Si dette veloce a togliere i tordi e i merli di terra, fece cenno ai ragazzi di tornare sullo stradello senza inciampare nei lacci tesi. Undici pezzi. Dall’ombra delle ginestre tirò fuori un paniere di funghi ceppatelli scuri, sbarbati giù bassi, coperti di foglie di castagno; sopra dispose i tordi e i merli, quindi ricoprì con una pezzola a quadri blu. “Anche per oggi la spesa s’è fatta.”Disse soddisfatto e poi domandò: “Ma dove andate? Non lo sapete che quassù c’è del pericolo?” Demetrio spiegò tutto e cosa avessero in mente, dove volessero andare. “Siete troppo giovani per giocare alla guerra, non state vicini alla strada sterrata, lì i tedeschi arrivano anche con i camion, di rado ma alle volte vengono anche quassù, anche se non sono riusciti mai a prendere nessuno. Andate ai Pozzi del Bagno, ci sono anche i figlioli del Taddei e quelli del Mazzarrini, ragazzi come voi…”
“Ma voi… dite, dove abitate… quassù di che si campa?” Domandò Tonino. “Ci s’arrangia, per passare la notte ci sono i metati, s’è rizzato delle tende; le nostre donne vanno al mercato di Piazza del Duomo a Pistoia, barattano uccelli e funghi con farina bianca e gialla. Più in qua ci saranno le castagne. Fucilate non se ne tira per non fare rumore, la doppietta è caricata a pallettoni, non è per gli uccelli…”
Mostrò la tesa, micidiale, fatta a regola d’arte. Ogni laccio di crine di cavallo maschio era piazzato in verticale a giusta altezza da terra, posto in mezzo a bacchettini di stipa attaccati l’uno all’altro, un’oliva matura di qua e una di là dall’insidia. Videro l’uomo staccare dai cespugli tre gabbie messe basse, due tordi e un merlo, e coprirle; poi dette un cenno per aria di saluto e sparì nella macchia, silenzioso come uno strigide. (Rapace notturno, civetta) Lungo lo stradello parlavano dell’accaduto, avevano dimenticato la paura e si sentivano presi d’ammirazione per quell’uomo dei boschi, brutto e puzzoso, ma fiero e cacciatore. Due ore di scarpinata senza impegno, furono avvistati e fermati da un ragazzo come loro, macilento e con un gran paio di occhi, un MAB (mitra Beretta) della milizia penzoloni, a bandoliera. Li accompagnò a una specie di accampamento in una zona rocciosa dove maestosi alberi di faggio svettavano la loro secolare autorevolezza. Accanto alla bocca di una stretta caverna crepitava un fuoco di legna secca, solo fiamma e niente fumo, solo un po’ di vapore soffiava da un pentolino vicino, disposto su un triangolo di ferro con delle braci sotto. Furono interrogati da un uomo di poche parole, che conosceva la famiglia di Demetrio.
Colazione di pan secco tuffato nell’orzo e chiacchierata su quel che succedeva in città: quegli uomini si dimostravano curiosi e ghiotti di comprendere cose che conoscevano a menadito. Dettero loro il compito di sentinelle sulla strada che veniva dal Termine della Collina, ripartirono per quella direzione con una guardia del corpo, quel ragazzo con il MAB che li aveva intercettati. Sul posto dettero il cambio ad altri due, dei quali uno conosciuto, ma non si dettero a smanacciate e allegri riconoscimenti, sapevano che si trattava di interpretare un lavoro difficile, molto serio e si scambiarono le bianche bandierine di segnalazione. Tonino (Antonelli, mio fratello) s’era seduto su un tronco di faggio ribaltato in terra e mezzo marcito. Dalla sua postazione poteva vedere a destra Demetrio, lontano due o trecento metri e Fabio (Fiorini) a sinistra, molto più vicino alla stradina sterrata proveniente dal Signorino. Le ore non passavano, ogni tanto salutava gli amici sventolando una mano, attento che non agitassero la stoffa bianca. Ma non successe niente, e neppure il giorno dopo e neppure quello di poi. Si annoiavano, anche se si accorgevano di diventare uomini. Un giorno all’accampamento arrivò Menico con uno zaino talmente grande e pesante che tutti si domandarono come avesse fatto a portarlo fino lì dalla città. L’uomo era stanco, ma felice. Aveva di tutto, salami e dadi per il brodo, zucchero e sale, cartucce in calibro 16 e 12, etere e cotone idrofilo e poi lettere, lettere dalle famiglie che furono aperte in un battibaleno. La moglie del Tinti era incinta e in suo onore fu smarimesso un fiasco di grappa; tutti ne bevvero, anche i nostri eroi che all’ingollo diventarono di mille colori, strabuzzarono gli occhi ma non dettero cenno di non gradire un liquido da uomini mai assaggiato nella sua forza. Meglio andò con il fumo di sigarette avvolte, puzzolenti e pestilenziali,ma si sa, dura e faticosa da aprire è la porta che dà accesso al mondo degli uomini.
“Allora, ragazzi, come va quassù?” Domandò Menico,“vi divertite?” L’uomo sapeva che ai novizi venivano affidati sempre i compiti più rompicoglioni, anche se meno faticosi, ma non per questo meno importanti. I tre lo guardarono, avrebbero voluto dire, raccontare delle ore e ore passate a guardare il nemico inesistente, ma tacquero, invidiando il ruolo di Menico, cacciatore e trasportatore. La grappa di mirtilli liberava le pastoie del rispetto e dei reverenziali riguardi giovanili. Risposero all’unisono Fabio e Tonino, incespicando e avvolgendo parole simili, partite insieme dalle loro bocche, scontrandosi l’una con l’altra in modo comico e non voluto.
Così come avevano aperto bocca insieme, così si chetarono, guardandosi con aria interrogativa e invitandosi reciprocamente a parlare. Ma il timore di aprire bocca di nuovo insieme li frenava, finché Tonino si decise a parlare. “Si fa le sentinelle lungo la stradetta che va dal Termine all’Acquerino, un par di palle… sarebbe meglio venire a caccia con voi.” L’uomo pensò, considerando una situazione che conosceva bene: anche a lui era toccato di fare la sentinella, sapeva delle ore che non passano mai, del sonno che viene anche senza stanchezza, della testa che dondola cercando un appoggio, del tremendo impegno preso con la comunità di fuggiaschi, del nemico che può apparire all’improvviso…“Che credete… che gli uccelli e le lepri si facciano prendere da voi? Scommetto che non sapete neanche quante gambe ha una lepre… te, Morino, lo sai quante ne ha? L’hai mai vista un’orecchiona quando si fa ingroppare al lume di luna dal suo maschiaccio?” Menico si era rivolto a Tonino che badava ora a stare zitto, quasi impaurito dal tono dell’uomo, burbero e apparentemente astioso, ma non poi tanto, visto che parlò dei tre al capo indiscusso della brigata, il silenzioso Cecco di Valdibure. Gli occhi s’erano allargati di soddisfazione a tutti e tre gli amici, quando s’accorsero ch’erano stati distaccati in aiuto di Menico. “Vettovagliamento.” Disse il Tondini di Villa, quando Menico passò tra gli uomini con i tre ragazzi accodati dietro di lui. “Sussistenza, passa la Sussistenza, rendetegli onore.” Fece un altro. “Ragazzi, ricordatevi che la cambusa è sempre vuota e che la fame vien tre volte al giorno, tutti i giorni, acqua o sole…”
Aggiunse un altro, strofinando uno zolfanello, la cicca in bocca. Era terminata la noia. La scuola di Menico era interessante, era scuola di caccia, niente sogni: ciccia, il resto non contava. Impararono a nascondersi, a non muoversi, camminare silenziosi, fare capanni ‘alla Menico’ . L’uomo insegnava che non si deve riconoscere dove uno ha cacciato, dove si è nascosto. Niente tagli di frasche, solo tessitura di ramaglia secca, poi riposta in terra come era stata trovata. Un cespuglio di stipa morta fu dato a Fabio perché ne facesse bacchettini. Il cacciatore gl’insegnò a tagliarli a un palmo e appuntirli per le tese con i lacci. Non sapevano niente di niente; Demetrio, nato in campagna, era l’unico che sapeva maneggiare il coltello, i due cittadini tradivano la loro estrazione ignorante, ma impararono alla svelta: il lavoro -di questo si trattava- era piacevole e si divertivano a metterlo in pratica. Menico era prodigo di consigli, bisognava stessero attenti perché non si dilungava, non ripeteva:era esigente e non si rendeva conto come mai qualcuno non capisse alla prima. E impararono a riconoscere le mosse delle lepri dai loro cacherelli, se maschi o femmine, se giovani o adulte. La lepre è regina del suo territorio, può muoversi all’alto o al basso, seguire pascolo di capriccio temporalesco, ma da una certa area non si muove. Sfruttando la siccità della passata torrida estate, impararono a prendere le lepri con…l’acqua! A lume di luna camminavano nel bosco dietro a Menico che portava un secchio d’acqua. Demetrio con un tegame sbreccato di coccio, Fabio e Tonino con due pesanti tagliole tra le mani. Il silenzio assoluto e la mancanza di riferimenti umani dava loro una certa preoccupazione; ma stare con l’esperto cacciatore infondeva sicurezza e un’aria di superiorità mai provata.Appena sbucarono ai Prati Alti, andarono in cerca di un abete piccolo che aveva deciso di abbandonare i fratelli dell’antica abetaia, nascere e svilupparsi tre metri dentro l’erba, nel prato. Veloce, Menico attaccò il secchio con del fil di ferro al fusto dell’albero. Dallo zaino tolse il tubo di gomma di una macchina per ramare, col rubinetto.
Mise un’estremità nel secchio, e succhiò l’altra finché non sgorgò dell’acqua. Chiuse il rubinetto. Si fece dare il coccio e lo interrò in direzione e sotto la canna di gomma. Con dei sassi disegnò un piccolo passatoio, al di qua e al di là del tegame, una stradellina obbligata per quale animale fosse voluto andare a bere. Dispose le tagliole dentate prima e dopo l’acqua e le legò all’albero con un grosso filo di rame. Dette una stropicciata con dell’aglio selvatico e menta di campo alle tagliole e ai sassi. Le forzò e dispose due piccole tavolettine leggere sullo scrocco. Aprì il rubinetto e permise all’acqua di cadere giù a gocciole lente. Si guardarono e i tre amici ebbero occhiate di ammirazione per Menico, che invitò a ritornare alla Casetta del Montanile, dove avevano preso dimora. Prima di addormentarsi l’uomo spiegò che la lepre forse non aveva tutta l’acqua di cui aveva bisogno e che forse…Nella Casetta c’era un forte odore di bruciato. Un angolo era servito per fare un fuoco improvvisato, per chissà quale tormenta invernale; Tonino si tirò la coperta addosso pensando a sua madre e alle sue sorelle, non aveva rivisto il padre partito per la Russia; Fabio pensava alla lepre e la vedeva grossa come una pecora, rimanere alle tagliole e portarsele via, albero e secchio compresi. Demetrio russava, mentre Menico pensava alla S.Giorgio, la fabbrica dove aveva lavorato come tornitore fino a che non erano scappati in tanti verso le montagne. Non dormì mai e mezz’ora prima del brùzzico svegliò i ragazzi. “Forza, si va a vedere se c’è rimasta, l’orzo caldo si piglierà dopo, forza che è quasi giorno…” Camminare verso l’appostamento dava una sensazione sconosciuta agli apprendisti cacciatori: la speranza del risultato positivo aveva riempito i loro sogni; quasi di corsa arrivarono e Menico li rallentò, si sentiva un rumore come di sbatacchiamento. La lepre c’era! L’uomo fece un salto verso il buio, la luna s’era oscurata e luce non ce n’era. Sentirono squittire e Menico sparare una parolaccia talmente sudicia che si rifiutarono d’aver sentito, mescolati un santo comprensivo e una puttana di via Tomba, conosciutissima dai maschi di tutta la città. La lepre era rimasta agganciata per la zampa sinistra anteriore. Menico impartiva gli ordini. “Demetrio, muoviti, allarga le ganasce, tanto l’ho presa per il collo, ora non mi va più via.” “Arrivo, arrivo…” Un briciolo di fredda luce nascente mostrava la scena di Demetrio che non riusciva ad aprire le ganasce della tagliola, mentre l’uomo lo invitava ad appoggiarla in terra. Gli altri due compari stavano fermi, non potendo fare alcunché. “Così, bravo, aprile e attento che non ti ci rimangano le mani, arreggile, ecco, l’ho in mano io, s’è avuto fortuna,”aggiunse il cacciatore,“altri due minuti e non ci si trovava che il moncherino della zampa, guardate, è rimasta acchiappata proprio nel piede, se l’è rosicchiato…” Presala per le zampe di dietro, le lasciò andare una tremenda botta tra capo e collo con la mano. Due singulti, un ultimo rabbrividire di nervi e tendini, gocce di sangue dal muso, un altro giorno era pronto da vivere, un giorno da cacciatori.

Antonelli dottor Franco

BOBI, Il CANE DEL RAMINGO

Dino è del ’15, e sta con noi; è zio di mia moglie, in casa c’è anche sua sorella, che poi è mia suocera, una donnina impagabile. Dino sta perdendo la memoria, il che da una parte è male, ma anche un bene: non si ricorda i momenti buoni della sua vita, ma neppure quelli meno esaltanti. Non sa di avere novant’anni, crede di essere ancora in Sicilia a recitare la sua parte di combattente contro gli Alleati, racconta della sua vita di contadino, ancora vorrebbe lavorare e se gli danno delle patate da sbucciare si sente un uomo: l’antica, usata e maledetta necessità di servire il padrone lo tormenterà fino alla fine. Alle volte fa girare gli zebedei, vuole tornare a casa sua e non vuole credere che casa sua – che non era sua ma del Signor Ugo Niccolai Lazzerini – è stata stravolta dal tempo: nel più bel podere del piano di Pistoia, che lavorava con la sua famiglia; a S. Agostino ora ci sono strade e capannoni, il frenetico mondo del lavoro moderno. Ma quando ricorda la sua vita e parla di vitelli e conigli, del maiale e delle tradizioni, lo sto ad ascoltare come il fedele il prete dal pulpito. Andrebbe registrato perché è tutto una favola bella:
“Il Lario (doppietta a cani esterni) lo riportò il nonno, non so da chi lo compriede, o se l’avesse barattao, ma come tiraa…! Una mattina d’ottobre si vide il cielo… e gl’era nero dagli storni, roba di passo, s’avea dei richiami… lo sai? Non l’avea nessuno uccelli in gabbia comme i nostri e neanche una doppietta ‘ome il Lario aveano…Si stea nel capanno a testa bassa, se tu avessi mosso la pupilla d’un occhio… e gl’ eran dolori. Davanti la feritoia era stretta per vede’ appena e di lì sbucaa il tiratoio delle reti; dietro c’era n’apertura un po’ più larga per spara’ a volo e sul seccaione di noce. Se s’andava male a scuola il babbo non ci facea nulla, ma se gli si fosse mandao via gli uccelli dalla tesa…”;
“Ma che ne prendevi tanti, di uccelli?”
“Che scherzi davvero? C’era la fila alla nostra tesa, la fila de’ ‘acciatori; specialmente d’ottobre la gente volea ingabbiare, gli mancaan le pavoncelle, lodole, pispole, stipaiole, fossacci, ballerine, fanelli, filunguelli, tutti gli uccelli di prateria e i cacciatori diventaano matti per le pa’oncelle, che quelli di là dal monte di Serravalle chiamaano mìciole. Veniano dell’ ommini sconosciuti, arroganti, e per ave’ una mìciola non pregaano sconti, bastava dagliela e pagaano qui cche gli si chiedea. Quella mattina lì me la ricordo come fusse ora, nuvoli di storni passaano uno dietro l’altro, ma non daano retta, né agli affili, né a quelli di gabbia, così il babbo mandò me, ero il più grande, capisci? Sarò stato alto come un soldo di cacio, a prende’ la ‘anna alta per mettecci uno storno. Arò avuto diec’anni tra il sì e il no, calzini di stame e zoccoli ai piedi, feci tutt’una vola’a, la canna era ‘n due pezzi, pesa, ma io non sentio fati’a, quanno gliela detti mi parve d’esse diventato un omo; contento del dovere fatto, com’ un cane che riporta una lodola persa. Ir babbo ci piazzò una retina tonda e uno storno accodato; quando la rizzò, si vide subito la musica cambiare: que’ branchi che non da’ano retta e anda’ano compatti a diritto senza curare, curiosonno e patinno la novità, avvionno a scomporsi, gironno, fermannosi e rinvolandosi, si mescolonno come muscini impazzi’i fino a icché un gomitolo nero di storni non s’abbarbiò alla secca, saronno stati un miglione… una palla scura. Il babbo alzò i cani al Lario e scaraventò nel mucchio due bordae di gialla Randite, a lui quella porvere gli garbaa più della rossa Camia. Come fare un grosso buo con le forbici in un lenzolo nero. Io e Alfredo, il mi’ fratellino, s’avviò a rincorre’ quelli che ribaltaeno feriti, ce li mettenno in seno e qualcuno ci cascava, s’avea il fiatone, mentre il babbo raccattava quelli morti, sotto alla secca. Si durò un’ora a gira’ pe’ le fosse, nei cigli, non si facea che trova’ storni da ogne parte…”
“Ma quanti ne rimediaste?
“E chi lo sa? Tanti, ma tanti che il babbo, il giorno dopo, andiede al mercato e co’ sordi degli uccelli ivi e di quelli morti riportò calzoni lunghi per noi due e un vezzo alla mamma, anco la schiacciata con l’uva… mi vien da piange’, guarda, m’emmozionno, ma mmé lo ri’ordo come fosse ora.”
“Ma di quel cane che mi rammentavi… non l’hai salvato il sangue? Voglio dire, non lo facesti mai razzare, quarche cucciolo per rinnovare la genìa… che so’.. non gliela trovasti mai una femmina?”
“Bobi? Eh… come Bobi, di ‘ani a ‘uel modo lì non n’ avea mai scorti nessuno, nemmen’io e, bada, a me di tutto tu mi poi dire, ma che non abbia visto cani… mi venia a cerca’ della gente mai vista né conosciuta, solo per un parere, per fammene vede’, per sape’ di quello o di quell’artro cane… ma che te l’ho mai racconto di come lo trovai?”
“No, non mi pare” Rispondo così, pur sapendo di mentire per compiacere lui e me stesso perché avrei di nuovo goduto nel sentir raccontare, rinnovellare una storia vera, ma ogni volta un po' diversa, con fantasie aggiunte ai fatti, mescoli mescolati di cani, uomini e fucilate. Accadimenti che non se la sentono di rimanere senza materialità, in continuazione affacciandosi dal passato alla vita vera ogni qual volta ci sia qualcuno ben disposto a sentirli rivivere. Ed eccola la storia, come me la racconta spesso Dino, a volte in modo semplice, a volte più infiorettata, ma la sostanza è questa che vi trasmetto. Scusate il briciolo di vernacolo toscano e pistoiese che incontrerete nel leggere, di solito non lo uso – chi mi legge lo sa – ma Dino parla solo la su’ lingua.
“Voiàrtri vussie’e giovani e nun potete capi’ i nostrani tempi, tempora di streghe e carestie. Oggi annate tutti a lavora’, ahete studiato, e non vi viene neanch’ in mente per l’immaginazione cosa voglia di’ arriva’ a tavola, nun ave’ da mangia’ che pohinino e rialzassi sempre leggeri. E s’andava per le fosse a prende’ pesci e ranocchi da frigge’ e nel bosco per uccelli con la pania e con le reti, e, se ci riusciva, di sotterfugio, si prendea il Soffione, il fucile a bacchetta, e si sparaa a un branco di luherini o carderugi, non si sprecaa un colpo per un solo uccello, sennò tu lo sentivi il babbo come brontolava…Successe che s’andiede a comprare una vacca pregna in Maremma; vent’anni non l’aveo, fu po’o prima della guerra; nel camioncino del Vettori ci si staa stretti pigiati, ma come Dio volle verso le dieci s’era a Campagnatico, sotto Siena, in un podere chiamato Polveraia. Nel mentre i’ babbo conoscea querla gente, col Vettori che facea da sensale, io presi il ario e andai a vede’ di quarche lodola, s’era d’ottobre, un cielo di Tramontano, celeste come il mantello della Madonna di Valdibrana. Un terreno… meglio la mi’ pianura, da’ retta, costaggiù c’era tutti campi a saliscendi, fossi di lecci, grotti pericolosi che bisognaa arrampicaccisi con le mani. Lodole non ce n’era, da una vigna mi schizzonno via du’ tordi fora tiro, entrai in un fossone, buio dalle piante fitte soprammesse, in fondo c’era un rigagnolo d’acqua chiara e canterina e mi chinai a bere comme ‘n animale.” Un silenzio che parea d’;essere in chiesa. “Fu in quer momento che lo sentiedi, e mi fecia un po’ paura, voglio dì la verità, davvero. Uno scagno corto. Ma profondo come da gola di lupo.” Aahùùùùùùùù… “Voglio dì la verità davvero, mi fece un po’ ‘mpressione, anche perché non me l’aspettao, in quer silenzio. Alzai la testa verso l’alto, di dov’era vegnuto quer verso di bestia, ma non veddi niente, né risentiedi altro. Mi sarà sembrao, penso.” “Prendo per una specie di stradello ritto com’ un muro, terra rossa commi i’ssangue, scivolosa per l’acqua dei giorni prima, il fucile mi daa quasi noia per il peso, ma mi faceva sentire omo, padrone dei boschi e delle maggesi, più che contadino qual ero. Sòrto fuori di quella forra, arrivo su un pianoro, un colmo in cima a n’oliveta stenta; le piante n’aveano pochine… d’olive, foglie allungae dalla fame, insomma, ulivi guasi inselvati’iti. Sento un tordo zirlare, poi un altro, ne schizza uno fora da un àlbatro e si buttiede su na ‘uercia icina, ma c’ è troppa foglia e non lo veggo, punto la doppietta, pronto, mi sforzo di vedere in dove si fosse inselvato, e… di nuovo quell’abbàio mi smontiede facendomi accapponà la pelle dalla paura. Uno scagno breve e profondo, basso e potente, macchè scagno… parea il ruggito d’un leone, parea. Aahùùùùùùù…Lontano, ma sembraa vicino, a du’ metri. on penso più ai tordi, ne veggo un altro uscì’ dagli olivi, verso la ‘uercia anche lui, sulla punta di n ramo, gli potevo tirare a fermo, dove volevi che andesse… ma non gli tiro. Il fucile non mi dava in quel momento voglia d’ icchiappare come sempre, ma l’intendeo come un’arma da difesa, non so come spiegammi, ma che mi ‘apisci?”
“Eh capisco, capisco, va avanti, continua…”
“A vent’anni non avevo paura neanche di chi n’aveva dieci di più. Nelle scazzottate aveo imparao a tira’ per primo e di prepotenti n’aveo buttati in terra parecchi, e non sapevo icchè fosse la paura, per lo meno nei riguardi degli ommini. Ma qui non si trattava d’òmmini… Mi misi in sentita, appoggiao a un leccio che svettaa sul colmo, in posizione rialzata. lo sentii vicinissimo, poi lo veddi, maremma cignala… era un cane, un segugio. Nero focato e grosso, ma ti dico grosso, esagerao. Femmina, e vecchia, non ce la facea a correre e camminaa un passo veloce, col tartufo e i lunghi orecchi in tera a strasciho. Lo sapevo, non potea che esse’ uno scagno di ‘ane, ma il vedello in ciccia e ossa mi fece anda’  ia quella specie di paura, quer bbrivvido che m’era entrao drento, addosso a ‘i corpore. S’avvicinò e alzò la testa a guardammi per un sorso d’attimo. La pelle abbondante gli ricascaa sugli occhi, che gli avea rossi come il foco.Un capezzolo s’era allontanato dalle mammelle sformae e gonfie, andando guasi fora a sfiora’ la tera; mantello di pelo corto e nero, lucido come uno specchio, zampe color der tabacco tuscanio e poderose. Riprese il su’ cammina’ col naso in tera. Vidi che cacciava e gli andai dreto: non alzaa mai ‘l ceppione e ogni tanto aumentaa quel pistare cor naso quanno gli paresse di ave’ trovato ‘n odore interessante, che fosse lepore o cignale… chissà icché cacciaha codesto canaccio, però cacciaha e si vedea che era un seguitare impegnao, d’un segugio insanguao che va a trova’ l’animale, ma camminaa, non ce la faceva a corre’, perché era vecchia… forse guanto gli zolli ‘he pestava. Intanto e mi guardao d’intorno per vede’ se fossi bono a scorge’ er su’ padrone, di si’uro appostato all’alto, ma non veggeo nessuno. E drento di me mi dicevo sta a vede’ stamane s’ammazza la lepre senza ringrazià nessuno. Il cane sparisce, lo sento scagnare e quello strano abbàio giù di sotto, lontano, verso la pianura, poi niente, poi il vento me lo riporta in mente da poggi distanti, di molto remoti, poi gnente e non ci penso più. Mi fermo; da un alberottolo piccolo ma rigoglioso stacco una mela, bacata: la mangio a morsi, anche se ho dentro ‘l giubbotto ir coltello; scanso il torsolo e il baho Gianni intento a lavora’ sulle sue amate gallerie; ma guanto lavoreno i bahi Gianni… ehi, che c’hai fatto caso? Che gliela daranno la pensione? Che fa’ ridi? Nun tu lo sai che… e songo un tipo curioso. Ascolta, ti dico come andonno le cose: mi sento come se quarcuno mi guardasse, sbilucio intorno, ma non veggo nessuno; poi mi parve di scorge n’ombra, sì, in cima alla collina c’era un omo col fucile che va verso casa, quella in dov’era il mi’ babbo col Vettori; si ferma, scruta verso di me, te che avresti pensato? Io penso che fusse il padrone del cane. Codesto riprende il cammino, sparisce ingollato da un poggiolino, m’aspetto di vedello riappari’, ma non lo veggo più e all’improvviso ti risento di nuovo ‘l cane, di morto accosto. La stranezza di questo avvenimento non m’abbandona, facendomi passa’ la voglia di caccia’, e mi dico ora piglio e ritorno dal babbo e dal Vettori. Sto per torna’ dreto quanno riveggo il cane, a non più di trenta o quaranta metri; mi guarda e dà in quello scagno suo particolare, basso e lugubre, corto, e mi rimpaurisce, accidenti a te…Aahùùùùùù…Lo guardo e lui stea fermo, a testa alta, senza mette’ il naso in terra, sembra chiamammi, invitammi, insomma, lo scagno è per me, lo capisco, nun sono miha grullo; poi accanto a lui vedo l’uomo che mi sorride, io alzo ‘na mana in segno di saluto e vo verso di loro, forse abita nella casa dove semo andai a compra’ la vacca pregna, penso. E’ di pohe parole, sa della vacca, è il figlio del contadino, mi dice che la cagna è dietro a un leprone da due giorni. I modi, l’aspetto e il linguaggio uso me lo fanno apparì come uno che ha studio, è un ‘ommene maturo, più grande di me, voglio dì la verità, sa mettermi a mio agio anche se sono un contadino, non è curioso come me, non fa domande, solo mi parla bene del Lario, fucile che conosce per avenne uno uguale un su’ amiho. La conversazione dura poco perché la ‘agna, vicino al bosco, riomincia a caccia’ e pare ave’ risolto un girigogolo e trovao na pista bona, sihura. Manda quer su’ latrato al cielo con più frequenza, e pare che tutte l’anime dei segugi siano in ascolto, di lassù… o che vuoi che non ci sia un paradiso anche per i cani? Eh…? Te che dici? L’omo mi indica un alloro, con un largo sasso vicino, dove appostammi, mi incita a fare in fretta, mentre lui corre di scatto verso un’altra posta, non lontana. Resto imbambolao, non conosco l’usanze de’ lepraioli e di ‘uei luoghi, sono un po’ indeciso, ma corro verso il grosso macigno, cerco in tasca du’ corazzate. Quando arrivo sotto l’albero, ho il fiatone alla gola, al Lario gli ho messo in pancia piombo del due, alzo i cani e sto pronto, digli che vegna… La segugia ha rinfittio l’abbaià, mi fo pregne’ dall’emozione, sento un groppo arla gola, non m’era mai capitao di caccia’ con ‘no sconosciuto. Appoggiato al tronco, riparao dal sasso, guardo e veggo mi finisco gli occhi e sbilucio ancora in tera davanti ar cane, ma non veggo nulla. D’un subito mi par di vedere, sì… sono orecchi dritti, è ‘n leprone al cuccio, immobbile sta sbilucianno la cagna. Potrei tenta’ anche una fucilaa a fermo, ma è lontanina, e vedo il cane camminargli addosso… la lepre parte come ‘na molla, uno zighezaghe e scappa ‘n do ero io, col segugio che lamentaa il suo profondo urlo di vittoria. Diomio comme andea ‘l leprone! Mi venia addosso, non m’ ha visto, ora mi domina il timorpanio di padellallo, gli tiro una mina davanti, tropp’avanti, maremma cignala! Uno sbuffo di terra sur muso paffuto gli fa cambia’ direzione, ci ripensa, torna di nuovo verso di me a tutta velocità, mamma comme gli è grosso! Guasi mi pesta i piedi, non sciupo la fucilaa nel tiragli così vicino, lo fo allungare, occhi fissi sul culo bianco, ora ho la cagna tra i piedi che dà in un ululao tremendo e prolungao, ha il leprone negli occhi e il suo puzzo ni naso…Veggo all’insieme il lepre che parea un fulmine, quasi fori tiro, e il cane del Lario abbattersi sul percussore della canna sinistra e una sfumacciaa alzare ‘n polverone di terra e pelo; le fucilae son due, deve avè sparao anche il padrone del cane: il leprone è stoppao, bela come un capretto, agita ‘na gamba e scalcia al cielo come a volessi levà il foho di dosso, sussulta un tremito, chiama i sua dei e gli dice che non lo sapea che la su’ vita…ch’era tutto ‘n inganno… e tutto è finito. Sangue dappertutto, dal naso e nella bella pelliccia, ora non tu mi scappi più! Gli arrivo sopra tutt’uno col segugio, sono contento, un nodo di gola, che ti deo dire… chiamalo come ti pare, quarcosa mi prende gli occhi e il gorgozzule, il core e le gambe, mentre dico bravo al cane che sta leccando il sangue sulle costole. Fo per accarezzare la testa della cagna e… m’ artrovo il manto del leprone sotto le dita! Riecco la paura, mi riporta alla realtà di brividi ghiacci per il corpo, te… che l’hai mai provata la paura? Non te la consiglio… è robaccia, non tu la ‘omandi. Il cane è lì che mi guarda, lo tocco e non c’è, lo vedo, l’occhi mia…le mi’mana non incontrano il suo corpo, scorgo la lepre, la cagna gli è tra me e il leprone, che mi riuscirà dirti come stavano le cose? Il mi sguardo l’attraversa, proprio l’attraversa, cerca di ‘apirmi… hai inteso? Arriva il padrone del cane, ha il fucile aperto, fumante, vede la lepre morta, è felice anco lui, una grande soddisfazione gli si stampa in faccia, si congratula con me, io non so icchè fare, ho sempre drento di me la paura avuta… ascolto le parole belle drento del cacciatore, gli dico che la lepre gli appartiene, io l’ho sbagliata, la lepre è sua, è del cane, così m’hanno insegnato, ma quello si rifiuta, non la vole, non so icché fare, lo sguardo mentre s’è chinao a accarezza’ la ‘agna. Un tremore improvviso mi brivida e tramuta le mi mana in pelle d’oca, ho paura, ma che mi ‘apisci? Mi parea d’esse ammattito! L’occhi attraversano anche il corpo dell’uomo, di lui e della cagna e io vedo il macigno e l’alloro dretro. Strizzo e chiudo gli occhi per allontanarmi di lì, di sicuro son dei fantasmi, mi dico, m’hanno fatto una malìa… o chi può essere stato? Li riapro e non veggo più né la ‘agna né l’omo. Solo la lepre è in terra vicino a me. Vaffanculo a tutt’ mmondo…! Ma icchè succede? Lentamente mi ripiglio, mi raddò, non mi raccapezzao più. Apro il Lario, levo i bossoli, li metto in tasca senza ricaricare; vo a taglia’ dei lacci da un ginestraio icino e lego il lepre a un ramo traverso d’alloro per le zampe posteriori; la sbuzzo, budellame caldo in terra, pulisco ‘l cortello e le mana con l’erba, levo il fiele, il fegato è lucido, bello sano. Mi guardo intorno, non c’è nissuni, non sento scagni di sorta, tocco il lepre, è vero, perdìo, è caldo, setoso… è vero! Mi guardo le mana, sempre sporche di sangue, sangue vero, le stringo a pugno. Torno alla casa. Gli uomini s’erano dati da fare, la vacca l’aveano già cari’ata sul pianale del camioncino, con delle presse di paglia dalle parti, perchè nun si facesse male a scivola’. Quanno veggono la lepre quasi a strascio in tera, tutti mi fèciano dei gran cumplimenti con manae sulle spalle; solo il padrone di casa, sempre con i soldi della vendita in mano, mi fissa negli occhi, invitandomi col babbo e il Vettori sul dietro della casa. Mentre apre la porticina di una legnaia si dà a racconta’ d’una storia strana, d’un su’ bisnonno, famoso lepraiolo, sempre rammentao a veglia per il monte delle lepri che riuscia a cchiappare grazie a un suo particolarissimo cane, un segugio che abbaiaa in modo che facea paura a tutti. “Guarda mimmo, lo vedi quer canino nella cuccia? E’ l’ultimo discendente di quel cane famoso del mio bisarcavolo. Avrà du’ mesi, se tu lo voi, piglialo, io son vecchio e a caccia non vo più, i mi’ figlioli lavorano a Siena e di caccia non sono mai stati appassionati. Piglialo, da’ retta, te lo regalo, ma non gli cambiare nome, perché porta male.” “O come si chiama?” Balbettai. “L’ho chiamato Bobi, come quel cane che vi raccontavo… quel fenomeno. Era una femmina, ma lo chiamavano Bobi, gli era un omaggio a un altro cane di chissà quando, anche lui un Bobi… oramai c’era codesta tradizione, se un cane era bravo il su’ nome non potea esse’ che Bobi.” ; Una forte curiosità m’avvampiede ni petto, mi fecia coraggio e gli domandai: “Sentite, ma quel vostro avo, o come si chiamava?” “L’avea un soprannome, ma s’è perso col tempo, mi pare… no, non me lo ricordo, io ero un bimbetto e mi sovviene che a veglia i cacciatori lo rammentavano, ma il nome non me lo ricordo, aspetta…mi pare “Il Ramingo” o qualcosa del genere, sì mi pare proprio che lo chiamassero il Ramingo, ma non sprecaan troppo fiato per dire il su’ nome, perché gli avea intimorito tutti e più che rispetto n’avean…’na specie di paura, anche se lui non avea mai fatto del male a nessuno, ma lo sapete com’è, non avea amici, vivea ne’ boschi, comparìa all’improvviso… fece una brutta fine, poveraccio…” ;
“Che fine…? Dite dite, o raccontaela tutta la storia.”
“Scivolò in un botro, battiede una gamba in un sasso, se la rompiede e non si potiede rizza’. Ma avea picchiato anco la testa… fu il cane a dare l’avviso a casa, ma quando i soccorritori arrivonno lui e gli era bell’e morto, poeraccio…”
“E il cane?”
“Dei cacciatori del paese cerconno di prendello, perché sulle lepri non lo battiede nessuno, ma lui scappò e lo sentinno abbaia’ per degli anni da quelle parti, senza mai vederlo… poi, non ci crederete, – l’hanno sempre raccontato da queste parti – non si sa neppure se sia vero, avete visto la gente come fa? Succede quarcosa, se la raccontan tra sé, magari e ci canta anche un paio d’ottave un poeta di fori e non si sa più se quel fatto fusse vero oppure no… comunque hanno sempre detto che lo ritrovonno morto nì punto preciso di quel botro in dov’era morto il su’ padrone. Allora, lo voi o no? Bada, poi tu ti pentirai se non lo pigli..” “Lo voglio di certo.” Dissi e me lo messi in grembo, montiedi sur camioncino e non aveo occhi che per il canino. gni tanto, lungo ‘r viaggio di ritorno, prendeo la lepre e gliela metteo vicina, lui l’annusaa poi mi guardaa di sotto in su con quegli occhi a piangere e mi leccaa le mani. Bobi diventò un cane da lepri come nun se n’era mai visti, con lui ho sempre fatto una gran figura di lepraiolo… che lo vo’ sapere? Non l’ho mai raccontao a nissuni, ma Bobi le ‘cchiappava da sé, le lepri… io non ho tirato che poche fucilate con lui… ora lo posso anche dire, il tempo delle bugie è passato, e son vecchio ormai… ma che te l’aveo raccontata questa storia?
Mi pare di sì…o no?
Nun me lo ricordo, gnamo, via via, si va nell’orto a coglie’ du’ rape per stasera, si cociano e si rifanno co’ ciccioli, tu vedrà come si sta…Questo era Dino Pagnini zio di mia moglie Elisabetta, una brava donna.

Antonelli dottor Franco

DICK, BRETONCINO GODERECCIO 

Tonino, Giorgio e Marcello andavano spesso giù per le Maremme a caccia; tempi in cui era permessa la caccia agli uccelli migratori minuti, fringuelli, zigoli, peppoli, fanelli…Merli e tordi, frusoni e cesene erano considerati uccelli ‘grossi’; lodole, pispole, fossacci e ballerine erano oggetto di caccia dedicata, civetta e gabbie, affilo, caccia di prateria. Loro godevano nell’andare a giro, caccia vagante, dopo aver fatto l’aspetto al brùzzico a tordi e merli. Un’ora alle parate, fermi, aspettando l’uscita degli uccelli dal bosco, poi… il mondo davanti, siepi, seminati, grotti, prati d’erba medica: uno avanti ad aspettare gli uccelli involati dagli altri due che si muovevano a rastrello.  poteva capitare di tutto, dalle lodole di rilevo al pigro e lento colombaccio rimpinzato di ghiande o bacche d’ellero; la lepre improvvisa e la ghiandaia impaurita, il fagiano becero e la beccaccia infastidita, e vicino agli acquitrini martinelli e beccaccini, a volte anche pavoncelle. ra una caccia di movimento: lontani dalla macchina, erano costretti a portarsi dietro di tutto, dalla riserva di cartucce al sacchetto col pranzo, borraccia, telo per una parata improvvisata, un ombrello se il cielo minacciava di piangergli addosso. Al pomeriggio, verso le due e mezzo, fermavano i loro passi alla vecchia barriera di sassi della Riserva di Canino in Maremma, guardando verso la pianura in attesa di fringuelli e tordi che rientravano ai boschi circondati dai bianchi cartelli di divieto. Era frequente sparare molte fucilate in una giornata: Tonino s’era dato al calibro 20 per avere meno zavorra, gli altri due s’erano assoggettati al 12 che non risparmia dalle fatiche e dal severo rinculo, ma era caccia libera e meravigliosa e il peso… ma quale peso? ’unico problema vero era dato dal recupero degli uccelli morti, che non sempre si risolveva positivamente. Anche conoscendo bene il tragitto di caccia, evitando di tirare a uccelli in transito sopra erbai sporchi, ciuffi di cespugli o d’alberi dove sarebbe stato impossibile il riporto, a fine giornata erano molti gli anelli degli strozzini che avrebbero potuto essere pieni e invece…Chi va a caccia sa quanto rompa i coglioni lasciare un uccello in terra, non ritrovarlo. Anche se ce e facciamo una ragione, nel senso che non è sprecato o ucciso per niente perché può servire di pranzo a una donnola, volpe o altro animale, formiche…- in natura nulla viene buttato via – ciononostante uccidere e lasciare in terra è sempre stato il più grande rammarico del cacciatore.
“Eppure è cascato qui… l’hai visto dov’è finito?”
“L’ho visto, sì, ha battuto in quel ramo basso, dev’essere sotto l’ornello, ora vengo anch’io ad aiutarti, codesto non si può perdere…”
E cerca, fruga, alza l’erba e le foglie, pesticcia, butta il cappello in terra per non perdere il riferimento, il tordo sembra andato a finire in bocca a una volpe che passava di lì per caso. Ed è deplorevole aver ucciso senza la conseguente funzione dell’arrosto, del mangiare la preda, una tra le ragioni per rimediare il ‘mazzo’ di uccelli. Giorgio detto Loppa, amico di sempre, meccanico d’auto in Piazza d’Armi a Pistoia, presente nella camarilla delle moto d’epoca e delle bici da corsa, maturò la decisione: ci voleva il cane. E cane fu. E Dick fu il suo nome. Breton, maschio, cucciolo intraprendente e voglioso d’imparare il riporto, perché della caccia classica ai fagiani ai nostri proprio non gliene fregava meno che niente. Fu un’estate di fischietto e dressage…Terra! Porta! Visite dal veterinario e lettura di libri sul cane da caccia, in modo particolare il riporto della selvaggina morta al padrone. Amore e gelosia. Questi gli istinti sentimentali che avvinghiarono Loppa al giovane breton. Il cane non s’immaginava dell’enorme carico di responsabilità che sarebbe andato a sostenere e cresceva bene, sano e curioso, forte di complessione – non era un bretoncino sotto misura – e dotato ‘di sangue’. Loppa ne era orgoglioso e in garage, tra le auto dei clienti, lo istruiva in continuazione, anche in manovre strane, da circo, vista la facilità con cui Dick imparava non solo il riporto: stava seduto con le zampe anteriori conserte per aria; fermo, guardava un buon boccone, mangiando solo a comando. Il dressaggio perfetto ne aveva fatto un cane da circo, impressionante, e Loppa ne andava fiero, mostrando a tutti gli amici gli esercizi che il piccolo grande cane francese era in grado di fare, davvero straordinario. Venne il momento di far basta di andare a prendere le lettere dal postino, tenere in bocca il portafoglio del padrone, abbaiare a comando, camminare all’indietro; aprì la caccia e il breton era ‘n cane ‘fatto’ di dieci mesi, dressato come meglio non si può. L’allegra combriccola passò il settembre aspettando la caccia vera, quella di passo, la migratoria, e ai primi di ottobre erano a Canino, in Maremma tutti gli anni ‘stessa spiaggia stesso mare’. Perché cambiare e rischiare in un altro posto quando loro sapevano bene dove fosse il paradiso? Alle solite parate, rinfrascate, la novità era Dick che stava obbediente ai piedi di Giorgio che se lo coccolava con gli occhi e col cuore. Uccelli non ne uscì dal bosco e presero per le stoppie. S’alza una pispola, poi un’altra; spara Tonino, ne becca una, parte Dick e recupera con soddisfazione.
“Toh, qua, vieni, dà…”Lo incitava Antonio detto Tonino professore di matematica, cercando di convincerlo a riportare. Dick lo guardava, indeciso, ma s’indirizzò da Loppa, padrone che gongolava nel mentre il cane gli deposita la pispola in mano.
“Non ti preoccupare, tanto gli uccelli, dopo, si dividono come sempre.” Gli urlò Loppa. Toccò a Marcello fare una coppiola alle lodole. Dick le recupera tutte e due e va dal suo padrone a depositarle.
“Non ti preoccupare, tanto gli uccelli, dopo, si dividono come sempre.”
Gli urlò Loppa che aveva preso gusto al vedere il lavoro del cane che riportava, e solo a lui. D’altronde, chi era il padrone? In effetti quella squadra, come tante altre, faceva a mezzo delle spese e delle riprese, come si dice, tot benzina per uno, uccelli divisi per tre, a fine caccia, indipendentemente da quanti uno ne avesse morti. Ma dà un certo piacere avere allo strozzino le proprie prede e con quel cazzo di cane… non era possibile. Musi lunghi; solo gioioso, oltre la norma, Giorgio Bianchi detto Loppa, orgoglioso del cane. Fu una giornata di sole e di poco passo. Ottobre con temperatura di settembre, come spesso accade in Maremma. Per tutto il giorno gli altri due s’erano sgolati a chiamare il riporto di Dick, ma il cane sapeva bene a chi portare gli uccelli. Passa una settimana e sono di nuovo lì, di domenica. Gran passo di uccelli. La mattina al brùzzico i tordi uscivano in quantità, tra padelle e centri. Il cane… solita solfa. Quello che dava noia agli altri due era la soddisfazione stampata sul ghigno di Giorgio, che pareva al settimo cielo, forse anche all’ottavo.
“O Giorgio, ma lo tieni un po’ legato codesto cane, per la miseria!”
Vociò Tonino che aveva fatto uno scatto da centometrista per arrivare prima di Dick a raccattare un merlo disalato. E glielo prese davanti al muso e il bretoncino rugliò di disapprovazione, tornando verso Giorgio col mozzicone di coda tra le gambe (!) Cane di alta dirittura morale e professionale… Dick, non era quello il suo lavoro? ella caccia vagante i fucili cantavano la loro canzone, di gioia per i tre amici, di morte per le lodole e le pispole, abbondanti, passo pieno. Fermi sul mezzo del giorno a fare uno spuntino, consideravano la noiosa acquerugiola che li aveva bagnati. Dick stava mangiando una scatoletta di carne, era un cucciolone che non si tirava di certo indietro per un po’ d’acqua, era in condizioni pietose, bagnato fradicio, ma sempre in forma e Giorgio lo ammirava come può farlo solo un uomo innamorato del proprio cane.
“Te e codesto canaccio…!”
Esclamò Marcello detto il Poncino, sorridendo, il terzo della compagnia.
“Del che ti lamenti? Non se n’è perso neanche uno, dacchè c’è Dick!”
Affermò Giorgio come padrone del cane, e aveva ragione, il breton era tremendo nel suo lavoro, veloce ed efficiente; ma gli uccelli li aveva in carniera lui e anche se poi li avrebbero divisi, sì, insomma… per Tonino e Marcello non c’era gusto. Però Marcello, detto il Poncino, ne aveva in mente una delle sue. Originario dell’Arca, quartiere di Pistoia famoso per i suoi interpreti di simpatiche vigliaccate, azioni bizzarre al limite del codice, Marcello non ci stava a subire quella situazione antipatica; n’aveva morti una quarantina e in tasca ne aveva cinque o sei. Strizzò l’occhio a Tonino che s’immaginava qualcosa, ma non cosa avesse in mente Tripolina, altro soprannome di Marcello. Passandogli accanto, gli sussurrò:
“Stasera al rientro degli uccelli, tu vedrai, si ride…”
“Ma cos’hai in mente, merdaiolo?”
Domandò Tonino, professore che amava circondarsi di persone del popolo, amici veri, non sofisticati. a il Poncino rispose con un beffardo mezzo sorriso, incamminandosi per lo stradello che portava al muro a sassi della Riserva, gli altri due amici nella scia; aveva smesso di piovere, Dick, sempre brillante, triplicava la strada agli amici che camminavano sfottendosi e ridendo delle padelle, i tiri sbagliati sempre altrui. Era vicino il momento del rientro degli uccelli. Nuvole nere ormai lontane portavano il loro carico d’acqua verso il nord; un ventolino di sotto, dal mare, spennellava gli olivi inargentandoli, un vento sfavorevole per un buon rientro, di solito ottimo col Tramontano. Quasi all’improvviso s’apre il cielo dando posto al sole, cambia il vento, comincia quello dal nord: uccelli per aria d’ogni tipo, tordi e fringuelli in numero impressionante, prima altissimi, poi il vento li abbassa a tiro. I tre amici s’erano piazzati a una cinquantina di metri l’uno dall’altro, alle parate solite. Comincia la contraerea, occhi in forma, cartucce comprate dal mitico Gigi del Mulo, Velox e Storno per i due dodicisti, mentre Tonino sparava solo Special Blitz con il magico Breda 20 semi automatico meccanico a mollone. Come Dick passò vicino a Marcello, questi l’agganciò per il ollare: il cane aveva un tordo in bocca e avrebbe dato l’animaccia sua di cane fedele al padrone per non mollarlo. Ma il Poncino aveva un’altra arma per conquistare il breton, che gli mise subito in mano il tordo ammazzato da Loppa e non si mosse più dalla sua parata. Cadevano gli uccelli colpiti dai tre e Loppa urlava all’indirizzo del cane che non rientrava. Si mosse e andò a vedere cosa fosse successo; subodorava che l’avessero legato, quei figli di puttana dei suoi cari amici. Ma il cane stava sciolto ai piedi di Marcello, come se avesse un nuovo padrone! S’incazzò come una jena, gli mise il guinzaglio e lo riportò alla sua parata, non rideva per niente mentre smoccolava tutte le litanie possibili e rintracciabili nel gergo pistoiese, toscano. Tonino si mosse, per domandare cosa succedesse proprio nel momento clou del rientro. Ma il Poncino rideva perchè Loppa non sapeva cosa potesse essere accaduto… Ecco due colombi sopra la parata di Giorgio detto Loppa. Imbraccia il Cosmi e ne stende uno. Subito Dick parte a razzo per il recupero più facile, sta per tornare dal padrone, lo guarda, un attimo d’indecisione, cambia direzione e lo porta al Poncino che rideva a quattro ganasce.
“Diccheeee… tu ma’ maiala, vieni qui, porta, porta maledetto, maremma troia, ma che ti dà quel merdaiolo, ma che ti succede… canaccio figlio di mille sangui, vieni qui vigliacco, accidenti a te e a me che ti ho dato anche il latte di gallina, bel ringraziamento, Diccheeee…”
Ma Dick portò il colombo a Marcello e poi gli servì tutti gli uccelli abbattuti, compresi quelli di Tonino che considerava quella situazione strana e curiosa, non rendendosi conto del perché il cane si comportasse così. Loppa pensò che quello gli desse qualche leccornia da mangiare, anche se era strano, gli aveva insegnato a non mettere niente sotto i denti se non da mano che non fosse la sua. Lo andò a riprendere un paio di volte e poi smise, sconfitto nell’orgoglio dal cane infedele che tornava sempre alla parata di Marcello. Come al solito il notevole mazzo fu diviso a fine giornata, con lo scorno di Giorgio e le risate di sfottò del Poncino, vero supremo principe del prendere per il culo. Rivelò il segreto solo un paio di mesi dopo, a Natale, in garage, presente Tonino, una sera che stavano fissando d’andare per cesene ad Altedo, alla frutta rimasta in terra.
“Figlio di puttana, me lo potresti anche dire cosa tu gli hai fatto al mio cane, vuol più bene a te che a me, guardalo, t’ha sentito. Guarda come viene da te, non mi guarda neppure…”
“Vieni Dicchino, vieni,”disse Marcello al bretoncino, ridendo,“diglielo che ti garba anche a te se qualcuno ti fa le seghe…” e scappò di corsa perché Loppa gli aveva già tirato dietro una chiave aperta di 22. Una bòtta sulla porta del garage, che quello s‘era chiusa dietro, svelto come un saettone.

Antonelli dottor Franco

CON UN FILO D’RBA IN BOCCA

Ognuno di noi ha un luogo sacro.
Un posto in cui stiamo bene, forse senza conoscerne il motivo. Nessuno ha notizia di questa nostra chiesa segreta, nascosta come un sentimento. Vi ho portato la prima ragazza, quella dei silenzi e delle vergogne, del fuoco in faccia. Poi ci sono tornato da solo, seduto su di un largo masso scagliato lì da un ciclope, il cane ai piedi a pensare al futuro, al passato, a nulla. Il mio luogo sacro è in montagna. Le montagne, quelle belle, possono sembrare tutte uguali, tutte splendide: è facile sentirsi bene arroccati per aria. I panorami entrano nell’anima e regalano praterie d’erba pettinata dal vento, campi di segala e di lino, il profumo del fieno segato e arrovesciato a seccare, il rosso dei fiori di fagioli, il bianco di quelli delle patate, il nero della terra lavorata, lo sciacquettìo del fiume che cala a valle. Ma le montagne non sono tutte uguali e sacra ce n’è una sola e ognuno ha la sua. La fifa degli esami, la debolezza di una cotta, uno scontro in famiglia mi portavano lassù, all’altopiano del Masùt dove le foreste di abeti sono scure come l’inferno, e i prati e le felci fanno macchia chiara; tre laghetti e una sorgente completano la cartolina. In primavera ero lì a gustare il verde uscire dal secco, le gemme curiose che si affacciano al mondo; ammiravo i rondoni tagliare il cielo con rapida sicurezza; ascoltavo i merli dal becco innamorato esibirsi in assoli melodici, prolungati, mai uguali; odoravo il dolce della vita nuova. Giù in basso, i caprioli tossiscono e abbaiano l’estro. Più su, fuori e al limite degli abeti rossi, oltre i pini mughi e tra ginepri stenti, i camosci belano l’amore e le marmotte sibilano invidia per le acrobazie dei gracchi, mentre terra e rocce fanno polvere, in silenzio, quando il vento s’aggira capriccioso.
E’ il mio ambiente, solo qui sento un’antica incredibile corrente addosso. Seduto sul largo masso, mèdito con un filo d’erba in bocca. Lo sguardo vola, rimbalzando leggero tra le valli, accarezza lo scroscio d’acqua bianca che salta giù dalle alte pareti della Capanna Dogana, libero affoga nelle brume lontane, incapace di penetrare il colore dei boschi, verdi quelli vicini, blu, sempre più scuri e indistinguibili, quelli lontani. Strade bianche battute portano a quote notevoli. Le ho percorse con una rumorosa Guzzi Superalce, poi con una vivace moto da enduro, oggi con una saltabecca da trial che non si sente a un metro. L’appoggio a un tasso secolare e prendo a piedi per lo stradello, potrei andare su a occhi chiusi. Quasi tre ore, gli scarponi sono a metà della loro vita, comodissimi. In ultimo mi arrampico con le mani e arrivo in cima: la sorgente è al suo posto, dentro a pietre rifinite da chissà quale remoto scalpellino; l’acqua è quasi in contatto con una lingua di alte ginestre che la congiungono con un bosco di abeti bianchi e radi larici spogliati dall’inverno. E’ l’abbeveratoio di tutti gli esseri viventi dell’alpe: qui confluiscono le vacche caccolose di Tonio e gli animali della montagna; qui viene di notte il Gran Leprone a fare toilette e pettinarsi i baffi, ci accompagna le sue femmine innamorate, struscia alle pietre la coscia dove pizzicano ancora tre grossi pallini di piombo sottopelle. Alzano la testa al cielo buio, a invocare gli dèi delle lepri, brucano l’erba intorno ai sassi, mentre la brezza accarezza la loro pelle di peli. Anche l’averla, i fringuelli e i tordini di nido, le pernici in processione e la poiana càpitano di giorno a quest’acqua: è il loro regno, e anche il mio. Vengo a questa fonte come certa gente va alla messa di domenica, alcuni allo stadio becero, come altri a un comizio con le bandiere o al bar pettegolo dagli amici.
Anni indietro ci portai compagnia, ragazze, panini, musica e allegria … una profanazione. Mi sentii rimproverato, non so da chi, né per che cosa; il passare degli anni rese tutto chiaro, e capii la differenza tra la pianura industriosa e puzzolente e l’alpe, altare immacolato. Poi ci sono tornato con il binocolo nello zaino assieme al cambio dei vestiti asciutti, in caso di acqua dal cielo.
Un giorno qualcuno piantò due pali e tirò una catena: un bianco cartello di proprietà privata indignò tutta la montagna; era visibile d’ogni dove, più del sole che scompare preciso dietro le cenge della Capanna Dogana, più del crocefisso sul campanile roccioso degli smerli di Punta Alta, dove neve e ghiacci non muoiono mai. Un industrialotto di città aveva comprato tutto, prati, malghe, boschi, perfino il Gran Leprone e la sua corte, anche l’aria e il cielo, la luna e le stelle: questo era detto in quel cartello senza dirlo.
Arrogante d’ignoranza l’uomo di pianura vietò il pascolo alle vacche di Tonio. Accomodò una baita per i suoi incontri nascosti e assillato dal profitto pensò di far rendere interessi all’intera valle con un allevamento di cavalli avelignesi da lavoro.
Non ci tornai più, cambiai alpe, albe e tramonti.
Continuai il fidanzamento con le montagne, con zaino e tendina, sacco a pelo, pane e formaggio; celebravo bivacco con le mie riflessioni, sbinocolavo per ore, qualcuno avrebbe potuto scambiarmi per un Guardia, invece ero sentinella di me stesso, non permettevo ai miei pensieri di pianura di mescolarsi con quelli d’altura. Il desiderio di tornare alla mia valle mi pressava in continuazione e dopo aver rimandato chissà quante volte il progetto, dopo due anni mi trovai ad arrampicarmi di nuovo verso l’annosa sorgente.
Grande errore. Non si deve tornare nei posti di cui serbiamo un bel ricordo: anche se il luogo non è poi tanto diverso, siamo cambiati noi stessi e dopo anni di assenza dalla fonte non avvertivo più l’antica incredibile corrente. Imputavo questa mancanza di sensazioni agli steccati, ai prati recintati e al filo di ferro tirato a protezione della proprietà; era cambiato il mio rapporto con questa terra. Inutilmente il mio sguardo cercava di fare l’aliante nella valle, trovava un muro, non sedetti sul largo masso, niente filo d’erba in bocca, niente di niente.
All’improvviso arrivò un branco impetuoso di cavalli biondi al galoppo: lo stallone, superbo e prepotente, padrone, era primo di tutti ad affermare sé e la sua famiglia, un harem di concubine bellissime, puledri e cavallini dalle gambe stecchine e dal manto piumoso. La mandria era impressionante: una macchia fulva di criniere bionde, come un gorgo si precipitava nel sentiero in discesa, con rumore ovattato dalla polvere mentre lui, imperatore vero, stava davanti a esplorare, controllare, pronto all’invito, al comando. Un’immagine di natura potente; vado via per non disturbare, mi rimase addosso il rammarico del sacro diventato banale, ma anche quel non comune ritratto di forza e libertà: cavalli, tanti cavalli in un ambiente che per secoli l’uomo aveva destinato solo alle pecore e alle vacche.
Il tempo non si ferma, seppi che il tipo di pianura se la stava passando male, cercava di vendere tutto quello che aveva comprato per sfizio, non per amore, e una sua squadra stava tagliando gli abeti rossi per farne travi, senza neppure aver chiesto permessi. Anche i larici del Masùt avevano ricevuto la visita di un produttore di finestre della lontana città, che ne aveva ammirato l’altezza, in mente conti d’interesse; non era più la mia cuccia, mi dispiaceva, ma non più di tanto, m’ero sentito tradito. Non so chi o cosa mi abbia di nuovo riportato lassù. Forse il profumo di canzoni lontane, il ricordo nebbioso di un amore, o forse il Genio di quel luogo, una volta sacro, mi hanno spinto ad allacciarmi gli scarponi. Sono tornato alla sorgente.
“Uno scempio,” mi dice Tonio, “ ha venduto tutto, anche quello che non c’è. Se potesse darebbe via anche l’aria: le tre malghe a un’agenzia immobiliare, i boschi di abete per tavole e travi, i larici per farne porte e trementina, ha fatto fuori tutti i cavalli avelignesi , le cavalle e i puledri, e ora vende la proprietà a pezzetti, i laghi a una società di pesca, è finita la pace anche quassù, non c’è rimasto nulla…”
“Ma come… davvero? Quei bei cavalli … li avrà comprati un allevamento …”
“Al macello… un tanto al chilo, altro che allevamento! Si sono salvati solo lo stallone e una femmina col cavallino.”
“Per la miseria, dimmi … com’è successo?”.
“La sera prima che venissero i camion a caricarli, avevano radunato e legato a delle lunghe funi tutti i cavalli. Non ci crederai, ma lo stallone strappò la corda sua e della cavalla, che aveva il puledrino di due mesi, e scapparono.”
“E non l’hanno ripresi?”
“Niente… non ce l’hanno fatta, li hanno allettati con l’avena, con del sale apposito, con tutto; andarono in cinque per i boschi a cercare di riprenderli, ma quello era più furbo di una volpe, si spostavano silenziosi come fantasmi, senza nitrire. Poi, uno di quegli uomini si slogò una caviglia, tornarono via, lasciando i cavalli al loro destino.”
Il vecchio Tonio se ne va, scuotendo la testa.
Guardo i boschi rimasti, i prati rigogliosi; le alte ginestre vicine alla sorgente sono scoppiate di giallo, il luogo è in vendita, abbandonato, non desolato. Vado all’acqua. E’ una giornata di luglio, afosa, ho sete, ripenso a quando lo stallone mi apparve la prima volta. Bevo nel palmo delle mani, mi butto l’acqua ghiaccia e tagliente sulla faccia, sui polsi, sul collo, come un animale, sui capelli, ravviandoli. Mi siedo sulla pietra calda, con un filo d’erba in bocca. E avverto di nuovo l’incredibile antica corrente addosso. Guardo in lontananza giù per il basso, verso la foce di tutte le valli, annego nelle lontane nebbie blu, mi sembra di riprovare quel caratteristico effetto di leggerezza: con gli occhi plano giù per i boschi scoscesi, in competizione di incroci con i rondoni e il vento mi fa l’ali e mi sostiene, vedo l’erbe alitare aria calda che mi tremola l’orizzonte lontano. E terra e cielo a culla, m’avvampa e mi seduce il paradiso. Non so da quanto fosse lì, silenzioso, dentro il mare delle ginestre a guardarmi, mi ha fatto quasi paura, pensavo a lui ma non lo credevo così vicino, tranquillo, sembra imbalsamato; lui… cavallo intero, docile fuor di natura, neanche fosse un castrato da maneggio. Immobile dentro i cespugli a tre metri da me, lo stallone mi guarda e io… lui. Pare vecchio da quanto è calmo; parla con i grandi occhi, storie di miserie, si volta indietro, non è solo. Non so cosa fare, mi paiono tre sopravvissuti, ammiro il coraggio e invidio di buon cuore. Una settimana e sono di nuovo lì, giro per tutta la montagna senza vederli, a sera sto per tornare via, punto il binocolo verso una vetta lontana, sì…accidenti, guardo meglio… sono loro, lo stallone pare il cavallo della vendetta, li osservo a lungo, come fosse l’ultima famiglia di cavalli al mondo.
Equini d’alpe, razza rara. Ho consumato un altro paio di scarponi, oggi ne ho di nuovi, li sto domando e loro mi portano lassù a trovare quei cavalli, per parlare con loro della sorgente, dei rondoni, delle valli blu, del Gran Leprone del Masùt e delle sue dame.
www.francoantonelli.com Antonelli dottor Franco

L’ APPRENDISTA STREGONE

Le conosceva tutte. Ne aveva viste e provate tante. Aveva discusso di moto per anni e ne possedeva diverse, di nuove e di vecchie. Voleva bene a tutte le moto mai fatte e a taluna qualcosa in più, pur non essendosi mai innamorato in modo totale.
Quando tornava da una gita, due minuti di garage con la moto davanti gli bastavano per riassumere il bene e il male: era severissimo, anche con quelle che più gli piacevano. Di giorno, nelle chiacchiere della società motociclistica, non tradiva la sua concubina, ma prima di drappeggiarle addosso una coperta le dava il voto, rigoroso: una frizione un pelo dura, una forcella appena sbacchettante, una sella un po’ morbida o dura, un telaio forse ondivago, un motore con poca coppia in basso, un nonnulla bastava per depennare senza pietà il giudizio positivo, quello assoluto. Questo cercava: una moto al di sopra di tutte, bella come un’inglese, sicura come una tedesca, generosa come un’italiana, civetta da passerella come un’americana, anonima ma popolare ed eccellente come una giapponese.
Custodiva gelosamente i suoi pensieri, sapendo che nessuno lo avrebbe potuto capire. Era arrivato alla convinzione, dopo interminabili discussioni notturne con se stesso, che l’uomo tenta di fare proseliti, ma non ascolta gli altri, anche quando dà l’idea di farlo. Non desisteva di rimuginare alla moto perfetta, alla migliore, al tipo estremo che, nella sua idea, avrebbe dovuto compendiarle tutte. Nella sua altezzosa intimità avvertiva che solo lui avrebbe potuto crearla. Solo lui aveva letto e studiato moltissimi cataloghi e tante riviste italiane e americane di moto. Solo lui aveva trovato i difetti delle moto nuove senza averle nemmeno provate. Solo lui aveva la conoscenza quasi superiore. Solo a lui era apparso il Genio delle Moto in sogno, e non dopo una serata di canne, ma nel momento della digestione di salsicce e fagioli all’uccelletto. Era stato in ascetica audizione del Genio per tutta la notte, senza mai smettere di muovere la testa in segno di assenso. Diavolo di un Genio… lui sì che sapeva tutto sulle moto!
L’apprendista stregone ascoltava e Quello parlava, instancabile, illustrando con la bacchetta puntata sullo schermo luminoso di un monitor: passava da un 50cc. a un 1200cc. e poi enduro, moto da corsa, speedway, short track, hill-climbing, quindi l’Indian da loop the loop e non smetteva mai…mai mai. Indicava la più lunga e la più corta, la più leggera e la pesante, la più larga e la più stretta, l’intelligente e la stupida, la brutta, la più cara, la più vecchia, la più prestigiosa, l’anonima, la più
amata, l’inosservata, la più invidiata, la più veloce…
“Ma la migliore? Qual è la più incredibilmente superiore?”
Domandava l’apprendista stregone, piccino piccino, nella sua piccolezza. Il Genio lo guardava dall’alto della sua universale e indiscussa competenza, con occhi dolci. Rallentava la risposta per evidenziare la banalità di quella domanda, sempre ricorrente.
“Non esiste ancora.”
Sibilava, affermando l’imperfezione dell’uomo e dei suoi prodotti. Dai dialoghi notturni l’apprendista maturava un desiderio di creare, di stupire, di arrivare all’inarrivabile. Pensò ai princìpi del bello, ai capisaldi del sapere, ai dettami della più raffinata ingegneria e alle caratteristiche dei materiali migliori. Quella notte un’aria secca e tagliente, come una lama di Sheffield, tentava di entrare nella case con rumore di ululati di rapina, di violenza. I vortici cercavano di aprire, scardinare, elemosinando un
battente mezzo aperto per esprimere la propria forza. Era aria arrogante, pregna ma impotente, veniva da lontano, aveva lambito terre di diverse culture; si sentiva espressione di sintesi delle migliori intuizioni, spingeva, voleva entrare e dare, donare…
Tentò l’unica finestra illuminata di tutta la città, immersa nell’inverno più nero e tetro a memoria d’uomo. In quel momento l’apprendista aveva deciso di aggredire (sigh!) l’hard-disk con la consumata (!) keyboard. Stava infilando dati e parametri e suggestioni, ascoltò anche l’Intelligenza Artificiale arrivata da poco, dedicandosi alle moto che aveva continuamente davanti agli occhi, si voltò verso la finestra, udì quella spinta angosciante e sacrificale, si fermò. Decise di alzarsi, guardò fuori, il buio era assoluto, aprì la finestra di un briciolo per chiudere le imposte esterne e fu così che entrarono… tutti, ordinatamente insieme.
Ognuno si accomodò dove più gli piacque. Geni minuti e giganteschi, inglesi, italiani, tedeschi, giapponesi, americani, francesi, svedesi perfino neozelandesi, non mancava Corradino D’Ascanio sempre con in mente la sua Vespa Piaggio: chi andò tra le pagine delle riviste, dei libri e delle enciclopedie di moto a ritrovare i suoi simili; uno si accoccolò vicino al pistone di 88x82mm. di Mentasti con una Guzzi Normale C2V del 1924 da corsa che fungeva da posacenere; un altro si piazzò nel cilindro in ghisa di un Norton International che faceva da fermo nella libreria; un altro ancora iniziò a trastullarsi con le valvole di una Indian Scout che stavano sulla scrivania. Molecole d’aria di tutta la terra, miscelate dai Geni con particelle d’idee di molte contrade, si amalgamarono in quella stanza e in un ignaro e ignorante Personal Computer che fu grembo e lievito per la creazione della moto perfetta. In un angolo, stravaccato in una lisa poltrona color rosso Ducati anni’50, osservava, in gaudente
silenzio, il capo di tutti, il Genio delle Moto, finalmente contento e rilassato.
L’uomo apprendista digitò per ore e la keyboard di nuovo si scaldò arrivando al rosso fuoco (!). L’ispirazione alfine si esaurì, facendogli provare la soddisfazione del lavoro fatto a regola d’arte. Frullò il tutto nella memoria del Computer, scremò il negativo, esaltò il superiore, dette il via alla stampante mentre millanta altri occhi curiosi dietro le sue spalle puntavano con aria interrogativa la figura che si stava delineando sul foglio. L’ottava meraviglia del mondo apparve nella più umile semplicità superiore. Meravigliosa e incredibile, si offriva, con pudicizia e alterigia, la moto assoluta. Aveva le forme e la bellezza inarrivabili delle Triumph e Norton rigide degli anni ’50. La qualità delle BMW bavaresi, la violenza delle pluricilindriche MV, l’arrogante agilità del 250 Morini bialbero del 1963 di Provini, la leggerezza e la vigoria della Guzzi 350 di Carcano e Lomas, la sveltezza di un’Aprilia 250 2 tempi, la comodità e lo show-fashion-look della Harley Davidson Sturgis anni ’80, la tenuta di strada e la potenza di una Ducati Panigale V4, il sontuoso e invisibile prestigio di una Vincent Black Shadow, la semplicità della Vespa Piaggio, la perfezione assoluta delle Honda, Yamaha, Suzuki e Kawasaki, il prezzo e la povertà di una vecchia giapponese usata, senza più anima né logo sul serbatoio.
L’apprendista alzò il foglio con compiacimento, lo guardò a lungo.
Il silenzio era quello dello stupore e dell’adorazione religiosa. Anche la numerosa tribù, con il Sommo Genio in piedi, era in contemplazione. Soddisfatti, beati si beavano in continuazione, assaggiando come buongustai. L’apprendista stregone appuntò con spilli la moto perfetta a un quadro in sughero al muro che sovrastava la scrivania. Guardava e guardava ancora quel mix imperiale e pensò che, forse, aveva messo un’inezia di sale in più nei fagioli con le salsicce gustati a cena… ora freddi.

Antonelli dottor Franco
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BEPI IL BARBA, CACCIATORE DI LEPRI 

Inverno schietto. Un leggiadro lenzuolo di brina aveva ricoperto il mondo intero. Buio indeciso di fine notte: neppure il giorno pareva aver voglia di svegliarsi. A Bepi sembrava che l’aurora tardasse, forse per l’aria ghiaccia e tagliente, forse per il rallentato ritmo di divenire imposto da uno spirito perlaceo e indistinto, che tendeva a confondere abeti e faggi senza foglie, mughi e ginepri, felci e ramaglia in decomposizione. Uno spirito di nebbia color della morte, di freddo inverno dicembrino che assassina a tradimento chiunque non abbia un riparo, un grembo, un tegolo, un buco, anche sotto terra. L’instancabile e fedele Tobi andava e veniva, veniva e andava su e giù per lo stradello sassoso, mentre Bepi pensava a camminare di fretta, agile, con l’andatura di spalla, caratteristica della gente di montagna.
Lo chiamavano Il Barba perché era quasi glabro, niente peli, niente rasoio, pelle liscia e giallastra. Una mano sulla cinghia del fucile a tracolla, l’altra racchiusa a proteggere la sigaretta, una puzzolente Alfa che di tanto in tanto aspirava nei polmoni come profumo di paradiso. Tobi assomigliava a suo padre, lo spinone pura razza del farmacista di Novate e non aveva preso neanche un po’ dalla Stellina, una segugia, proprietà dell’intero paese, che non s’era mai concessa a nessuno. Era alla catena e non resistette alla baldanza dello spinone scappato in odore e onore di lei.
Un cane da caccia, Tobi.
Sulla schiena una chiazza color del tabacco era l’unico segnale ereditato dalla madre, mentre del padre ostentava il fisico possente, il pelo avvolto, baffi d’acciaio e spunzoni di sopraccigli più duri dei pruni. Bepi era un cacciatore di lepri, conosceva tutte le rimesse e i covi, era abituato a cacciare da solo e, quando scioglieva , sapeva di doversi arrangiare perché Tobi non scagnava. Ma s’era adeguato perché di poste, su verso le Prata, non ce n’erano poi tante. Frugava i prati dove le orecchione erano solite fare le ore piccole e dalle fatte individuava il maschio birbante, le femmine giudiziose e i giovani sventati e avventurosi con il grimaldello sempre sguainato. I vecchi cacciatori gli avevano pronosticato magri carnieri con quel cazzo di cane
senza voce, ma lui non ci aveva badato, con Tobi di dodici mesi ne aveva già incarnierate tre ed era soddisfatto. Gli dispiaceva solo doversi tenere tutto per sé, ma non voleva concorrenza nella sua zona. Nascondeva accuratamente le budelle
delle orecchione sotto un metro di terra, con un macigno per coperchio, e a chi gli domandava delle fucilate rintronate per la valle fino in paese, raccontava di cesene e sasselli ai biancospini. Arrivato ai prati sotto il Gruf, si fermò a un ginepro tutto
storto dove aveva pisciato da sempre, sia lui che il padre e forse anche suo nonno, perché interrompere le tradizioni ?
Il giorno s’era levato senza entusiasmo e il sole capolinava debolmente dietro miasmi di nuvole pigre e evanescenti.
Inverno schietto.
La capanna del Brasca era sempre lì, con quei tre abeti secolari di vedetta, come sentinelle alla garitta. Un giro per l’altopiano gli fece capire che le lepri non avevano pascolato, chissà dove s’erano cacciate…Spalancò la porta sgangherata, si dette a troncare rami secchi di faggio rimessi d’estate e accese il fuoco con fogli d’un giornale accartocciato in un angolo , dove si vedeva la famiglia Savoia sormontata da una scritta di testata che recitava a caratteri cubitali: REPUBBLICA ! Tobi s’era piazzato accanto a lui, mentre timide lingue di fuoco sbocciavano tra le pietre. Il Barba le alimentava con piccoli pezzi, strologando dove si potesse essere rimesso quel maschio che gli aveva occupato i pensieri negli ultimi giorni. Un’altra sigaretta. Il fumo del tabacco si sposò con quello respinto dalla canna fumaria, fredda e poco incline a svolgere il suo lavoro. Un’idea di caldo ristoratore spennellò l’uomo e il cane. Una mezz’ora per ritemprarsi e poi ripresero la via della caccia, Tobi pareva contagiato dall’atmosfera avara e sterile, anche lui senza più voglia, come il Bepi. Il quale s’era messo gli scarponi con i chiodi e il passo era stridente e sicuro. Arrivarono alla sorgente dove tante volte, nelle calure estive, s’erano dissetati. Il ghiaccio aveva strinto in un tutt’uno la piccola pozzanghera, i sassi e l’erba cristallizzata. Lo scorrere dell’acqua sembrava dare il senso della vita che non si ferma. Stalattiti e ghiaccioli dalle forme più strane, solo bisognosi di interpretazione fantastica. Con la mente andava ai mesi delle calure, ora quell’alpeggio non sembrava neppure parente dell’agosto florido e splendente, orfano com’era di vacche e della verzura erbosa, grassa e ricca, dei campi di segala e di lino. Solo gli scogli lontani di dolomia e granito guardavano impettiti. Rocce e ghiacci, sassi marmati, a petto in fuori, attori di panorami da cartolina, importanti e perenni, distaccati ma saggi.
All’improvviso Tobi parve risvegliarsi. Abbandonato il lento andare d’obbligo accompagnatorio, iniziò un trotterellare spinto con subita nei cambi di direzione del tartufo, ora per aria ora in terra. Bepi si meravigliò assai. Era un posto dove non aveva mai trovato la pelosa, comunque armò i cani del Liegi, la doppietta appartenuta a suo padre che aveva sul calciolo in ferro più di centotrenta tacche. Quaranta le aveva fatte lui, con la lima: ogni tacca una lepre, ogni tacca una storia segreta, bellissime cacce mai raccontate, mai vanagloria, mai ostentare…ricordava tutte le parole del vecchio.
Tobi era nato senza coda, come stirpe di padre comanda, agitava il mozzicone interrompendo scattoso la direzione, interpretando una strana azione di caccia. All’uomo vennero in mente le B 12 ianche, pensava alle cartucce a piombo grosso che
aveva nel fucile, e si stava barcamenando nell’indecisione se sostituirle o meno, quando scorse Tobi bloccato in ferma. Era la prima volta che lo vedeva così, ritto e statuario, autorevole e autoritario, e gli venne quasi da ridere perché la selvaggina
di riferimento, per lui, aveva il culo bianco, due orecchie sbrendolanti e quattro gambe pronte allo scatto nervoso e micidiale. Cosa ci sarà? Pensò, ma non gli venne il timorpanico.L’eccitazione, l’emozione e l’accelerato tumpeggiamento del cuore
glielo davano, gratis, solo le lepri. S’avvicinò per compiacere il cane, lo accarezzò, blandì, gli disse bravo con gli occhi, sorridendo, cercò di vedere cosa ci fosse, pronto a sparare. Lo aizzò , spingendolo e rovesciandogli il pelo della schiena, ma Tobi pareva pietrificato, senza alcuna voglia di interrompere quello stato di fossilizzazione. Gli camminò davanti e il cane ruppe la ferma aggirando il cespugliaccio di pruni e carline, bloccandosi di nuovo. Bepi guardava e col calcio della doppietta mosse i
pruni.
Una beccaccia stava lì ferma, sotto a quell’intrico ghiacciato.
Pareva imbalsamata da quanto era immobile. Gli occhi spalancati non erano impauriti, aprì il lungo becco a intervalli, due o tre volte. Dava l’idea di una chioccia alla cova. L’uomo appoggiò il Liegi a un piccolo faggio nudo, allungò le braccia e
quella non si oppose, non sbattè l’ali, non si ribellò alle mani ruvide che l’agguantarono teneramente. Immaginò una fucilata, le soffiò nel petto, ma non vide ferite né segno di piombo, la rigirò senza che quella si opponesse. S’avvide che la
mano destra era puntinata d’una bava di sangue, guardò meglio e scorse la lieve ferita alla punta dell’ala. Lei ferma, come ammaestrata, mentre Tobi uggiolava, ghiotto d’annusare quell’odore nuovo. Tenendola nel cavo della mano scese alla Spelonca, la casa dov’era nato e aveva passato la fanciullezza; arrivò che erano le undici. A mezzogiorno, in paese, tutti sapevano, tutti volevano vederla. Il Barba l’aveva sistemata sul tavolo di cucina, in una scatola da scarpe e ognuno diceva la sua e nessuno riusciva a stare zitto, chi proponeva, chi sentenziava, chi consigliava, chi ricordava…
La ferita non sembrò importante e tutti furono d’accordo nel ritenere che aveva battuto in un filo della corrente elettrica già responsabile di vittime tra falchi e altri uccelli. Quegli uomini rudi, abituati alla legna da spaccare o da scolpire e alla pietra
da scalpellinare, se l’affigliolarono e ci fu chi portò un unguento magico, chi procurò lombrichi di concimaia, chi telefonò a un famoso veterinario di città. Ma la beccaccia non dava cenno di mangiare, solo guardava con gli occhi immensi e bambini, scuri e misteriosi, forse pregando, forse ringraziando.
Fu pagato il noleggio di due muli del Walter di Codera e il terzo giorno arrivò il veterinario a visitare l’uccello, diventato centro d’attenzione, non solo per i cacciatori. Disse che era magra e che doveva aver battuto la testa altrimenti non si sarebbe spiegato quello strano comportamento di tranquilla rassegnazione. Le sciolse le ali e provò a tirarle le punte con delicatezza di dottore amico. L’ala colpita stava più bassa, ma non come quando il Bepi l’aveva trovata. Un miglioramento era evidente, ma il problema era l’alimentazione perché la beccaccia non aveva neanche sfiorato i lombrichi che giacevano, scuri e senz’anima, in fondo alla scatola. E in cinque, in sei, in dieci si misero al lavoro, capitanati dal Barba che, per averla trovata, era indicato come il legittimo padrone dello scolopacide. Con i forconi fu diradata la paglia sulla concimaia di Toni. Con le zappe fu smossa la cotica ghiacciata. Con le pale fu allentato e spianato il concime caldo e fertile che iniziò a fumare, fecondo di bachi di ogni specie. Con tavole e chiodi e martelli fu approntata una staccionata e i gatti furono rinchiusi nelle case, qualcuno con una pedata di troppo. In processione portarono la scatola nella piazzola svaporante, allontanandosi con garbo, interrogando in silenzio Bepi che aveva partecipato a tutta l’operazione senza dare ordini. Spiarono da lontano, invisibili, ma venne buio e dopo cena, al bar, il tressette non fu collerico come al solito. Qualcuno paventò il timore che fosse bell’e morta, chi alzò le spalle in finto menefreghismo, altri disse che tutto il paese s’era rimbecillito.
Alla mattina la beccaccia nella scatola non c’era più. Il freddo, però, sembrava avesse dato requie. Uno, avvicinatosi, la vide in un angolo della staccionata, viva.
Corse a dare la notizia e in una diecina s’affrettarono, sgomitando, a spiare la concimaia da dietro la legnaia. La videro pedinare e pascolare. Quando infilò il becco nel morbido, estraendone un baldanzoso e ticchettante verme giallo, si dettero delle pacche sulle spalle in silenzio, per non disturbare.
La notizia fece veloce il giro di Bresciadega, il piccolo borgo sotto il Gruf ; dietro alla legnaia c’era sempre qualcuno di vedetta per riportare notizie o congetture. Altri tre giorni e fu domenica, quella prima di Natale. Alle chiacchiere sul sagrato seguì una
passeggiata a baveri tirati su e mani infossate nei cappotti in direzione della casa del Bepi. C’erano tutti, persino il Magù, che dacchè gli era morta la moglie non s’era più mosso di casa, ma non fecero in tempo a sistemarsi dietro la legnaia. In quel preciso istante, come l’avesse aspettati, la beccaccia piroettò leggera come una farfalla sopra le tavole ch’erano state il suo albergo, volteggiando impalpabile sopra i loro nasi all’aria. Dettero in un applauso mentre lei sembrò attardarsi un attimo, forse per scorgere qualcuno, qualcosa, chissà…poi andò dritta verso le Cime del Gianetti, per il suo destino, tramutato in benigno da un lepraiolo. Bepi il Barba era in mezzo agli amici, vestito a festa, camicia inamidata, la scorse andar via e fu soddisfatto. Ognuno, senza dirlo, pensò che avesse cercato di salutare lui.

Antonelli dottor Franco per FIDC

ZUPPA DI PANE CON LE COTENNE.

Fabrizio Belli, personaggio del romanzo.

Mi chiamo Fabrizio, Fabrizio Belli, sono nato nel 1973. Sto consumando una vita che non sa di nulla, o meglio che sa di poco.
Io e il mio amico Paolo Nutini abbiamo terminato il Liceo, uno il Classico e uno lo Scientifico a Pistoia; a Firenze io frequento Giurisprudenza, l’amico Economia e Commercio. Dopo poco, forse perché abbiamo preso strade diverse nello studio, non ci siamo rivisti, suo padre è stato destinato a una banca di Milano e tutta la famiglia è sparita. Avevamo fissato di andare insieme in macchina a Firenze, praticamente sono rimasto solo, meno male ho conosciuto una bella, forse sarebbe meglio dire bellissima, Farfallina di Prato. E’ iscritta a Giurisprudenza anche lei e andiamo insieme dividendo le spese di benzina, la macchina, una Volkswagen Golf, era di mio padre. La Farfallina vive a Pistoia da un anno. Studiare non mi piace, ho fatto il Liceo e ho sempre ripetuto delle materie per settembre. Ho una certa predisposizione per l’italiano, il latino e greco; invece mi restano sul gozzo la matematica e le materie un po’ tecniche, la chimica…
E’ un giorno d’ottobre, stiamo tornando da Firenze dove andiamo alle lezioni dell’Università per la strada normale con la Wolksvagen Golf ricordo di mio padre. Non sono solo, ho con me quella bella Farfallina di Prato, ora abita nel mio rione, ve ne parlavo poco fa. Purtroppo non me ne intendo di donne, la mia vita sessuale si svolge all’insegna della masturbazione giornaliera. D’altronde come si fa a mettere ogni cosa all’ordine delle donne, già tutte pronte alle leggi della società? Io sono un immaturo, un po’ infantile e mi trovo con i miei pensieri che si dibattono nella vergogna, per tutto, e credo di non poterci fare nulla. Mah…chi vivrà, vedrà. Ho accompagnato la Farfallina a casa sua… cosa le ho detto? Cosa volete che le abbia detto, sono stato nei giorni scorsi sempre in silenzio, le ho manifestato un modesto e triste ritroviamoci per la lezione susseguente tra cinque giorni e niente più, eppure ci sarebbero tanti argomenti di conversazione perché lei viene dal Liceo Classico Cicognini di Prato, come vi ho detto. Sono sudato, entro nel bagno per una doccia da cui non uscirei mai. E’ mattino tardi, mia madre mi preparerà una fumante spaghettata, siamo solo noi due, mio padre è morto quando avevo diciassette anni per una malattia, eccome se me lo ricordo… forse vi racconterò qualcosa, più in qua. Mi pettino i pochi capelli rimastimi e allo specchio mi guardo, occhi grigi, piccoli, faccia secca come il mio corpo di altezza un metro e settantotto, naso aquilino, barba lunga d’una settimana. Sono brutto ma me ne frego, non ci guardo, non m’importa, a scuola ero promosso a settembre senza impegnarmi, grazie alla mia memoria che mi faceva fare delle buone figure, ve l’ho detto che non mi piace studiare.
Domani è sabato, la mamma andrà al mercato con una sua amica, nostra vicina, dirimpettaia del nostro appartamento al terzo piano del medesimo palazzo, anche lei vedova. Probabile che la sventura comune abbia fatto da caglio, comunque è una brava donna sui quarant’anni, più giovane di mia madre, è olandese di Amsterdam, d’origine inglese e molte volte mi ha fatto da professoressa, per l’appunto d’inglese. Ha un figlio che ha preferito emigrare in Canada, da dei parenti olandesi, lo si è perso del tutto, era mio amico, un caro ragazzo. Sto leggendo una rivista mensile, Motociclismo, sento bussare alla porta, apro, è la vicina, l’olandese, domanda di mia madre, rimango a bocca aperta perché è uscita da pochissimo, anzi la invito a chiamarla, sarà ancora per le scale. Ve l’ho detto che in materia di donne sono acerbo e inesperto, insomma…
“Forse che Lesley ha bisogno di me?”mi domando in ritardo.
Mentre mi sto facendo degli interrogativi stupidi la donna mi ha messo le mani dietro il collo, stando zitta, chiudendo gli occhi e porgendo le labbra. Accidenti! Senz’altro sto diventando rosso, meno male non mi vedo ma dentro di me Qualcosa si sta disponendo in posizione verticale, Qualcosa che non ha modo di vedere l’età della donna, se è carina o no, e non ha il tempo di vergognarsi. Sono vergine, mi sono finito con le pippe su giornalacci che mi dà il mio barbiere, ma quella in un attimo manovra la zip dei miei pantaloni, dal pianerottolo mi trascina in casa sua, si posiziona in ginocchio e me lo cattura in bocca, interrompe un attimo e poi riprende l’operazione non senza aver detto parole incomprensibili e sussurrato in olandese, un po’ in inglese e mezzo in italiano:
“Accidenti, come tu l’hai grosso…dammit, how big you got…”Che vi devo dire? Diciannove anni per fare delle domande a coglione come sono io e un minuto per avere l’unica risposta che conta a questo mondo. Io non sapevo niente, ma lei mormora sottovoce:

“Attento, stai attento, vieni di fuori sennò arriva chi ti chiama papà!”
Penso…così vecchia e ancora fertile, però giovane come sono io le quarantenni mi sembrano delle nonne vicine all’uscita di scena. Entrambi col batticuore come aver fatto un chilometro di corsa. Il mio Billo sguazza nella foresta più dolce che ci sia, la lingua di lei esplora e si lega con la mia, sento che sto per urlare, è lei che si allontana quel poco per mettere all’aria il Cincero, non ha avuto il beneficio che ho avuto io, lei continua a star sopra, le piace star sopra. Un fazzoletto esce dalle sue mani e raccoglie il testimone di quei pochi momenti di lussuria, ora siamo con gli occhi aperti, contenti tutti e due di aver regalato amore. L’Animale non conosce soste, è tornato bellicoso, vuole il pranzo completo, lei ha capito e mi tira verso un divano, io le dico aspetta perché voglio andare a chiudere la porta di casa mia. Meno male, sul pavimento vedo le mutandine di Lesley, le raccatto, chiudo e torno nell’estasi, ora so dov’è. Un quarto d’ora e termina il secondo round, questa volta anche Lesley è spossata, a lei piace star sopra, ve l’ho detto, viene come un mitra, gorgogliando parole che sanno di antichi riti celestiali, forse vaneggia in olandese…e chi la capisce?
Torno in camera mia dopo un quarto d’ora; mia madre, rincasata dopo una mezz’ora, è rimasta stupita nel vedermi bello sciolto e voglioso di vivere, ma sopra tutto la sorpresa l’ho vista negli occhi della Farfallina, cinque giorni dopo, quando sono andato a prenderla per recarci a Firenze all’Università.
“Ma un fidanzato non ce l’hai?” le ho detto senza neppure augurarle il buongiorno.
Lei si è meravigliata, quattro volte insieme a Firenze senza neppure udire la mia voce per un semplice saluto e poi, inaspettata, una domanda molto intima, improvvisa e confidenziale.
“Che ti è successo?”ha risposto,“ti è venuto a noia accompagnarmi?”
“No, ero in un momento di depressione, invece stamani mi sento desideroso di vivere, tu sei la prima ad avere pazienza con me, non so, mi sembra di aver buttato via tutti questi anni, da oggi il Belli che conosci non esiste più, intendilo come morto.”
Riprendo la strada statale per Firenze, l’autostrada costa. Mi fermo a una farmacia, compro preservativi e vasellina, Lesley l’ho sempre in mente. Stamani la Farfallina ha una gonnellina scozzese sul blu e rosso, camicetta celeste e golf blu, sembra una studentessa di un college americano. Dico americano perché ha il visino col naso all’insù, fronte spaziosa, occhi verdi vivaci e lentiggini, capelli biondi come li aveva nei film Grace Kelly, calati fino alle spalle e breve pettinatura mossa in senso inverso. Ha scarpe nere da uomo con tacchi bassi, a mocassino con calzettoni lunghi, blu. Solo ora mi accorgo che non ho considerato a come mi sono vestito, mi guardo, blu-jeans LEE comprati al mercatino americano di Livorno, camicia denim LEVIS e una magliaccia in shetland verde scuro.
“Le piacerò?”
Una lezione noiosa di Diritto Privato, si monta sulla Golf e si torna a Pistoia
“Senti,”le dico, con un leggero risolino, una volta arrivati, “lo sai perché la rana non ebbe la coda?”
Accenna un no con la bocca, lasciando intendere però di stare al gioco.
“La rana,”affermo,“non ebbe la coda perché quando era il momento non la chiese.”
“Codesta poi, non la conoscevo, ma cosa vorresti dire?”afferma sorridendo.
“Vorrei dire che oggi è venerdì, domani è sabato e alle sette di sera fatti trovare preparata sull’uscio di casa perché ti vengo a prendere; alla tua mammina dille che tu esci con un malvagio criminale stupratore, o preferisci che venga in casa tua a dirglielo di persona…a proposito a che piano abiti?”
“Ma lo sai che tu sei proprio un bel tipo, non mi hai neppure detto come ti chiami.”
“Non me l’hai nemmeno chiesto, comunque mi chiamo Fabrizio, chi è quel ragazzo con cui t’ho visto in città…insomma dove lo ritrovi uno come Fabrizio Belli?”
“Senti, coso, innamorati ne ho quanti mi pare, se fosse questo il mio problema…”
“Vedi, invece, come siamo diversi, a me nessuna ha mai detto amore ti voglio bene, o ti amo, comunque per domani sera s’è fissato, ora scappo devo andare a riprendere mia madre dalla parrucchiera, è venerdì.”
“Ehi, no, aspetta…”
“Ciao ciao…a domani sera.”

Ecco, v’ho raccontato come nacque un Amore, Fabrizio e Dory s’innamorarono pazzamente, lei bellissima lui brutto ma molto simpatico, si sposarono ed ebbero subito un figlio, il Belli era un valido rappresentante di elettrodomestici. Lei aveva da badare il nuovo e piccolo arrivato e lasciò il posto di Capocommessa di un notevole market di indumenti intimi femminili con trenta dipendenti. Successe che andarono a Milano per presenziare ad una campagna di vendita di una delle rappresentate di Fabrizio. Era un interessante show-market, presenti tutte le più grandi aziende del settore elettrodomestici. Dopo aver lasciato Fabrizio a parlare ad uno stand, Dory girellava tra macchine da caffè e planetarie, vide uno stand dove un giapponese stava solo come un cane e una macchina elettronica alta come un uomo, nessuno s’interessava a loro, la macchina pareva morta per mancanza di attrazione, la donna si fermò a chiacchierare col giapponese, in inglese naturalmente. Per farvela corta la macchina elettronica era un oggetto nuovissimo per l’Europa, misurava in pochi secondi, accostando il viso, la capacità oftalmica senza alcun problema, senza errori e in pochissimo tempo.
La Dory fece un impegno di rappresentanza per l’Europa, dicendo una piccolissima bugia, ovvero che faceva parte di un gruppo di trenta agenti particolarmente affamati e affermati nel settore oftalmico. Fece la parte talmente bene che il giapponese chiuse lo stand e chiamò del personale per imballare la macchina, mandarla all’indirizzo di Fabrizio e di Dory e tornare nel Sol Levante. A Fabrizio, quando si rividero, Dory raccontò tutto e suo marito lasciò il mercato degli elettrodomestici per la macchina elettronica giapponese e fecero bene perché fu l’inizio di un commercio molto fiorente.
Insomma, il problema erano le fatture.
La seconda volta che andarono in Giappone con un bel malloppo di ordini, i giapponesi risultarono felicissimi ma sordi e non permisero di tagliare nessuna fattura.
Dory e Fabrizio fecero un video della macchina in azione, la mandarono in tutta Europa agli oftalmologhi, agli oculisti, ai negozi di occhiali. Giravano tutti e due, ma ognuno per conto suo, per fare più clienti per la macchina orientale e vendevano con successo, al figlio ci pensarono le nonne. I due fecero i soldi ma, accidentaccio, li presero in gran parte le tasse dello stato, di Italia. Allora Dory e Fabrizio cercarono e cercarono in Francia e Germania, trovarono alfine quello che desideravano, una sviluppata azienda elettronica che avrebbe potuto replicare la macchina giapponese. Tornarono in Giappone con metà degli ordini prefigurati e i Giapponesi non furono né felicissimi tanto meno sordi. Permisero di tagliare qualche fattura e abbassarono il trend di percentuale visibile dal 5% al 2,50% con il 2,50% al nero. Riportato a posto il rapporto di rappresentanza con i Giapponesi, Dory e Fabrizio rimisero a nuovo il commercio con l’Europa e fecero, ora sì, tanti soldi, diavolo, tanti soldi, che avete capito? Tantissimi soldi. Vediamo ora la vita di un altro reincarnato, il famoso Natta, meccanico di automobili, furbo, di carattere bravo poi, forse se ne avrò voglia, daremo un’occhiata anche a Violet Amato Gentili e a Abigail Azevedo.

Johnny personaggio principale del romanzo.
Mi chiamo Giovanriccardo Valori, nasco nel 1973 da una ricamatrice e da un tenente colonnello, paracadutista della brigata Folgore. I miei genitori vollero rinnovare la denominazione dei nonni e mi appiopparono i due nomi, Giovanni e Riccardo, sulla carta d’identità Giovanriccardo. I miei erano una coppia famosa per la loro bellezza, nacqui io che continuai la fama di famiglia, dicono che fossi charmant anche da piccolo. Mio padre muore in un incidente di volo durante una esercitazione e io, avevo dieci anni, e mia madre diventammo un nocciolo unico. Io e la mamma, sempre con gli occhi rossi dal pianto, eravamo sempre insieme, io sempre solo quando andavo in soffitta a masturbarmi con qualche giornale, ricordo con nostalgia una foto di Abbe Lane, alquanto discinta. Dopo qualche anno tutti mi chiamano Gianni, passano altri anni ancora e chi mi appella Johnny, chi Ricky. Sono nato con un bell’Animale tra le gambe, io moro di capelli. Tutti, diciamo molti, specialmente a scuola, mi hanno messo l’appellativo di Natta che in dialetto Pistoiese significa Cincero, per una evidente significazione tra me e il mio membro, ma solo se io lo permetto e in ambienti come il Bar da Cino o il Boario, un piccolo campetto di calcio di periferia dove gioco come centravanti, benino. Su una rivista leggo di Lea Massari e di suo figlio impegnati in un film che mi appassiona. Il film si chiama *Soffio al cuore* e l’attrice si concede al figlio in un rapporto incestuoso. Beh…continuo con le pippe in soffitta pensando a Lea Massari e, muto, m’informai dagli amici ma non ebbi risposte su cosa volesse dire incesto. Un giorno torno da scuola e a casa mia madre, come al solito con gli occhi rossi dal pianto, mi saluta con affetto, però quando mi abbraccia e mi bacia sento il mio Cincero agitarsi e diventare duro. In poche parole anche lei si accorge della mia condizione e in un attimo dimentica il dolore e dischiude le sue intimità all’amore carnale. Giuriamo che sia stato uno sbaglio e che non si sarebbe più verificato. A 13 anni do l’esame di terza media, sono promosso perché il professore d’italiano era amico di mia madre da giovane. Al gioco del calcio ruppi quasi la testa a Banana, un arbitro che aveva venduto la partita e fu la fine dell’attività sportiva del centravanti Natta. Quando ho 14 anni, quasi, conduco la mia vita come pare a me. Dopo le Scuole Medie ero iscritto al primo anno di IV^ ginnasio ( 1°anno di Liceo Classico ) ma preferivo, la mattina, andare da Peppe, un uomo che aveva una fornita officina per accomodare le automobili. Peppe si ricordava che lui voleva studiare ma suo padre non ne aveva i mezzi, aveva altri interessi da mantenere. Addivenni con Peppe a uno strano patto, il vecchio meccanico mi avrebbe tenuto a una condizione, solo che avessi continuato a studiare. Tenni fede alla promessa benché il Vocabolario di Greco fosse più pesante dell’incudine che riposava in un angolo dell’officina, sopra un troppolo di legno. Sono più di un metro e ottantacinque, dacché sono nato non fanno altro che dirmi che sono bello e io ho cominciato a crederci da quella sera… mah, questa ve la voglio raccontare. In officina c’è un Ufficio, una piccola stanzina con un letto dove capita Peppe che da quando è rimasto senza moglie, l’usa per riposarsi un’oretta nel mezzo del giorno, dopo il pranzo. Peppe alle sette di sera smette di lavorare per fare un po’ di spesa, io penso a pulire, mettere a posto gli arnesi, le chiavi, poi chiudo. Le donne? Sì, ci pensavo, però mai avrei considerato che una donna, una donna vera, si comportasse in quel modo. Quale modo? Era una cliente, credo una studentessa, figlia di uno con i soldi, un cardiologo famoso. Lei portava da noi una AutoBianchi A112 che non aveva bisogno di nulla, era nuova, aveva solo necessità del tagliando. Stavo per chiudere, una sera di primavera, arriva lei in fretta, entra in officina, scende di macchina e risale; a porta aperta, una gamba in terra e una nell’abitacolo, chiede se avevamo fatto la manutenzione come scritto sul libretto e come richiesto. “Sei solo?”mi domanda. Mi dà del tu in modo serio. Ha i capelli neri a caschetto e la frangetta sulla fronte. Raffinata di faccia, di corpo uno schianto. Alla domanda accenno di sì, e lei, veloce, si tira su la gonna e mi attrae a sé per una becca del colletto della camicia. Salta un bottone. Mi avvicina il viso verso le tette, io con una mano mi reggo al suo bel podice, si può dire podice o devo dire culo? L’altra me la intrufola nella Farfallina. Le mutandine sono mini, vorrei dire più che mini, con un dito le scanso; il groviglio di peli neri arricciolati mi rende una belva, le strappo quelle mini e lascio che il Cincero faccia come gli pare, le va fra le cosce belle piene, forse biasimandomi per non avergli mai fatto assaggiare il miele prima di quel momento. Lei mi voleva baciare e mi circuiva le labbra con la lingua ma eravamo messi male, lei a sedere nella posizione di guida dell’A112 e io mezzo di fuori dell’auto con il Cincero che si voleva affacciare per conoscere chi fosse a volerlo intrattenere.
Non era la migliore delle sistemazioni, così le dissi a bassa voce, col cuore in affanno: “Vieni con me in Ufficio.” La portai nello stanzino che serviva come Ufficio e a Peppe per dormire, non senza darmi l’aria da grande scopatore. Fu la prima volta, giuro, avevo 14 anni e forse Rebecca, la studentessa di Lettere, se ne accorse. Le mie esperienze l’avevo avute con mia madre, una volta sola e con la Simonetta: eravamo in ferie con mia madre, mia zia e figli su in montagna e ci avevano dato i soldi e la tanichetta per prendere il latte. Lei aveva dieci anni, io un po’ di più e quando s’arrivò alla casa in salita dove stava il lattaio, costui era col toro ad attorare, montare, la mucca. Insieme si vide il Billo lungo e fino del bovide e io e lei, insieme, si guardava il toro che scopava la mucca con l’uomo che l’aiutava con una manata di paglia.
Si prende il latte e si paga; per lo stradello la Simonetta si ferma, si spoglia delle mutandine celesti e mi tocca, lei mi dice che il mio Cincero è bello, più grande di quello di suo fratello, me lo piglia un po’ in mano poi l’avvicina alla Farfallina se lo mette dentro, per poco, perchè si sente parlare, era gente che andava dal lattaio. Nulla più, tutti qui i miei rapporti con il sesso.
Per tornare alla Rebecca, lei, penso, aveva quasi cinque, sei anni più di me e faceva supplenze di latino e greco alle Scuole Medie. A settembre avrei dato l’esame come privatista e speravo di fare bene. Studiavo fino a mezzanotte e Rebecca sempre in aiuto. Veniva in officina la sera alle 7, si mangiava insieme alimenti di rosticceria o fatti da lei a casa sua. Arrivava con una Honda 125 e dentro al casco jet il suo visino da bambina scompariva, non mostrava i suoi ventiquattro anni, portava i capelli neri a caschetto come Valentina di Crepax, un fisico che faceva voltare i maschi per la strada, un po’ piccolina ma c’era tutta. Quando le feci vedere che avevo comprato in farmacia i preservativi lei mi rispose che non servivano, lei era sterile a causa di fibromi uterini, incapace di procreare. Le avevo detto di avere venti anni perchè ero alto e grosso, una bugia, ma pareva che a lei non interessasse per niente, veniva tutti i giorni, meno il martedì e il venerdì perché faceva ripetizioni e non era gelosa, almeno così sembrava; se non si scopava, di rado, mi aiutava a pulire l’officina. Dopo quella ebbi altre ragazze, a loro era riservato lo scannatoio il martedì e il venerdì, giorni di ripetizioni di latino e greco che Rebecca teneva a casa sua, a lei era riservato il pranzo con me al ristorante di domenica, quasi sempre a Firenze. Andavamo con l’ A112 e sceglieva lei dove saremmo andati, e pagava sempre lei, come regola. Le ragazze mi dicevano che ero dannatamente bello, chi affermava che assomigliavo a Paul Newman, e chi a Marlon Brando, ma c’era anche chi propendeva per Alain Delon o Sean Connery. Eccetto qualche verginella, sempre rifiutata, le ragazze mi rivelavano subito cosa volevano da me e dove, un hotel fuori città che sarebbe stata l’alcova del nostro amore, e che, fattore importante, costava il giusto, ovvero poco. Ogni giorno, alle sette di sera mi lavavo, con i capelli ravviati e una mini lacrima di Opium di Yves Saint Laurent, roba adoperata anche da Anthony Quinn, andavo alla Standa, mio abituale territorio di caccia. Guardavo le ragazze che mi guardavano mentre le guardavo che si guardavano negli specchi indossando qualche Capodi abbigliamento. Una sera ci ho intoppato Rebecca con un’altra donna, di un’eleganza molto ricercata. Quell’altra sembrava uscita dalle mani di un’addetta al make up o al maquillage da cinque minuti. Erano nel settore della maglieria, Rebecca ha fatto finta di non vedermi ed io ho corrisposto, mi è rimasta in mente la sua amica con i capelli bianchi, anche lei a caschetto, di un’età… ma senz’altro non più di una fresca trentacinquenne. Una settimana fa è morto Peppe, non ha lasciato moglie o figli, l’unica cosa che aveva l’ha lasciata a me, l’officina che per lui era tutta la sua vita; per me è un grande regalo, povero Peppe, sono stato con lui quattro anni. Quando ho avuto diciotto anni, conoscevo il mestiere e, aiutato da Rebecca che ha migliorato le mie conoscenze culturali, mi sono segnato tra gli Artigiani confortato dal fatto che i clienti non avevano manifestato l’intenzione di cambiare officina. Beh… che dirvi? A settembre ho dato l’esame di terza Liceo Classico, è andata bene. A giugno mi avevano dato tre materie, l’agognata Maturità a settembre. E’ passato un anno dalla grande decisione, ovvero dal giorno in cui sono entrato nella sede della Associazione degli Artigiani per regolarizzarmi e cominciare a pagare i vari balzelli dell’attività imprenditoriale. Io avrei anche continuato a lavorare al nero, ma il cambio di passo è tutto merito o colpa della Rebecca che mi dice sempre di non aver mai incontrato un essere umano più ignorante, in senso buono, di me. E mi insegna quali sono i libri da leggere, dice anche, in sovrappiù, che lei ce la metterà tutta a scolarizzare un alunno illetterato come me; e aveva studiato con me le materie che avrei dovuto portare come privatista. Meno male lo studio è finito. Ecco, tutta la Rebecca della quale mi sono innamorato è qui, bella, in tanti anni non mi è mai venuta a noia. Ha un difetto, non mi dà pace con lo scannatoio, dice che se non provvedo io a imbiancarlo mi manderà un uomo a sistemare tutto l’ufficio. Ieri è venuta da me una signora, si è qualificata come moglie del Questore, mi ha mostrato la sua BMW bianca dicendomi che l’auto ha delle manchevolezze al minimo, e che a volte il motore si spenge. Mi sembra di conoscerla, sopra tutto per quei capelli bianchi, poi… ma certo, porca l’oca! E’ l’amica della Rebecca, quella che navigava assieme a lei tra i banchi della Standa. Le ho offerto di andare a provare la macchina insieme, mi sono tolto la tuta e ho chiuso l’officina mettendo lo sbrindellato cartello del *TORNO SUBITO*. Mi sono piazzato al posto di guida, lasciando a lei il sedile del passeggero. Mentre andavo verso via Pratese, gli occhi mi sono scivolati sulle sue gambe, belle gambe inguainate in calze leggermente sfumate con la riga peccaminosa dietro, con una gonna amaranto scuro che era senz’altro tirata più in su del necessario. La donna era di aspetto fresco, fragrante e pulito con un visino giovanile; io pensavo che avrebbe potuto essere mia madre, no, mia madre no, forse una sorella maggiore. Non avevo mai avuto avventure con una signora così raffinata, a Chiazzano ho cambiato strada, passando dalla Provinciale a una sterrata che porta a una casaccia abbandonata che conosco bene, teatro di qualche scopata estatina. La signora è una femmina reale, aveva voglia di tirarsi la gonna più in su e parlava, parlava, parlava… mentre io, zitto, badavo a spogliarla, ma ho trovato, per me, una graditissima novità: giarrettiere nere, nere come il peccato assassino di Lucifero.
Esiste un assassino di nome Lucifero? Mah…m’è venuto in mente lui lì…pazienza. Le ho fatto sentire di chi fosse il Cincero e lei se n’è impossessata smettendo di parlare. Ha un profumo inebriante, una mia mano nel folto del suo pelame inter-cosciale ha rassomigliato l’essenza di un manto di agnellino appena nato, eccezionale, ricciolina nera e capelli bianchi ma non bianchi come quando invecchiano, ma color panna di una tintura elegante, oserei dire chic. Con un filo di voce le ho domandato, dopo la prima, come si chiamasse, ha smesso un attimo di ciucciarmelo e mi ha detto: “Sara, mi chiamo Sara, attento, non ti libererai facilmente di me.” Io, dopo la prima, ho pensato che in officina aspettavo un cliente a ritirare una Lancia Tema e un rappresentante di Milano. Ho anche creduto che a Sara sarebbe bastato un incontro così frettoloso invece, mentre si rivestiva, mi ha detto:
“Senti Johnny, questo assaggiato ora mi è piaciuto, ma non penserai mica che io mi contenti solo dell’antipasto? Te l’ho detto, sono un impiccio, posso essere la più incredibile dea dell’amore ma anche una gatta attaccata ai coglioni.”
Veloce, sono tornato a bottega. Appena arrivati, vedo il cliente fuori dall’entrata e il rappresentante ad aspettarmi, saluto Sara, lei mi dà il suo biglietto da visita, io non le do niente, ai bigliettini non ci avevo mai pensato, il suo profumo l’ho sempre addosso e cerco di non pensarci. Liquido il cliente che vuole pagare, ci rifaremo la prossima volta, gli dico, e mi tuffo in quello incravattato di Milano. L’ho cercato io, cerco di essere affascinato dai prodotti elettronici, i soldi verranno in futuro, ora non ce ne sono. Il tizio milanese è di poche parole, mi dice che in Toscana non ha clienti e, se viene quaggiù, lo fa esclusivamente per me. E’ scocciato, vede che con me non farà affari, ha visto che l’officina è di piccole dimensioni, non vede l’ora di tornare nel milanese. Tira fuori dei depliants scritti in inglese e me li mette sulla scrivania. Spara dei prezzi sui computer che servono alle analisi dei motori, mi sembrano elevati, ma d’altronde stanno per essere adottati da tutte le case automobilistiche. Io ho già rifiutato lavori su BMW, MERCEDES, VOLVO e SAAB per mancanza di strumentazione adeguata. Gli faccio presente che a me occorreranno lettori di codici per FIAT, RENAULT, ALFA, PEUGEOT, CITROEN, cioè le più comuni marche in circolazione in Italia, i proprietari di BMW e MERCEDES nuove si servono dai concessionari dove hanno comprato le auto. Allora gioco di astuzia, apro un cassetto della scrivania cercando qualcosa che non c’è mai stata e rimanendo amareggiato, mi dico parole desolate: “No, guardi…le volevo mostrare la pianta dell’officina nuova da 500 metri, ma qui non c’è più, l’avrà ripresa l’architetto. Mi dispiace non farle vedere…”
Il tizio milanese a sentire parlare dell’officina da 500 metri, cattura i depliants, con una pennarello verga uno sconto meno 15%. Poi mi guarda quasi a domandare se sono contento, mi allunga un biglietto da visita c’è scritto Rappresentanze Auto Bongi ADVANCED AUTOMOTIVE ELECTRONIC ENGINEERING e quattro numeri di telefono, e uno di FAX. “ E due! In così poco tempo… due biglietti da visita.” Penso, faccio finta di cercarli e mugugno che li ho finiti. “Considero,”dice il Bongi,“che con un primo ordine si possa ridurre il prezzo di un 15%. Vedrà che diventeremo amici.” Discorsi commerciali accompagnano i saluti del Rappresentante, mentre io continuo a domandarmi chi è che abbia detto a Sara il mio nome. Quella mossa, della Sara, sul mio nome mi continua a tormentare. Per dire la verità è tanto tempo che voglio mettere una targa al di fuori dell’Officina con scritto:
JOHNNY VALORI MECCANICO AUTO TEL. 0573 33520967
“Sarà già rientrata in casa?” Penso,“mah…io provo a chiamarla, faccio il numero,”aspetto, mi risponde,“è lei.” “Sono io.”dico. “T’ho riconosciuto, Johnny.”dice lei. “Chi te l’ha detto come mi chiamo, per caso una mia o un mio cliente?”
“Per ora non te lo posso dire.”chiusa come una cassaforte. “O che vigliacca sei?”insisto garbato. “Quando ci si rivede? Io ho avuto solo l’antipasto.”sospira. Eccolo, torna in pista l’antipasto. “Oggi è lunedì, domani è martedì, facciamo domani sera alle 7 in officina, ti va bene?”
“No, domani sono occupata.”
“Allora mercoledì alle 7.”provo.
“Ci sto, ci vedremo mercoledì sera alle 7, ciao fenomeno.” dice. “Ciao.” Ribadisco e rispondo dentro di me, sempre annebbiato, ma quale fenomeno? Gentile ma non disponibile, cortese ma impegnata, molto riservata. Questa donna mi farà ammattire, peraltro me l’ha detto lei stessa. Penso alle sue giarrettiere nere, forse con le donne ho sempre sbagliato tutto, forse ho avuto tutto senza battagliare, c’è stata una in gonna che mi ha detto di no? Mi sembra proprio di no. Il tempo per arrivare a mercoledì è lungo, maledettamente tempo, ho da rifare la testata di un Alfa 2000, una 164, mi butto nel lavoro ma quelle giarrettiere nere non mi escono davanti, sembra che abbiano preso domicilio tra i miei pensieri assieme al profumo di Sara e al tocco vellutato delle sue giarrettiere. Entra in officina un uomo, un padre con figlio, dice che è un bravo ragazzo e vorrebbe lavorare, ha già avuto un’esperienza. Io non posso assumere, scelgo il lavoro e i committenti, così mi va bene, ogni tre prestazioni faccio una fattura e tutta l’officina marcia a pieno ritmo, non posso assumere, ci sto attento. “Mi dia il nome e il telefono,”dico pensando ai miei affari,“se ci sarà un’occasione, non si preoccupi, telefonerò. Domando al ragazzo come si chiama, lui risponde Claudio e scrivo il nome e il telefono, quindi li saluto. Con un filo di voce dice che gli piacciono i cavalli…mah, che vuol dire? Non capisco qui si parla di meccanico auto. Ri-saluto lui e suo padre.” Mi rendo conto che, alle volte come ora, parlo con gli altri e non sono presente, chissà se la gente se ne accorge. Mi sarebbe piaciuto assumere quel ragazzo, aveva gli occhi intelligenti e considero che tutti i giorni arrivo in fondo all’orario di lavoro, dieci ore, abbastanza provato. I clienti mi fanno perdere tempo, quasi tutti si mettono a ragionare del più e del meno, spesso vorrebbero consigli sulle auto. “Che diavolo me ne frega a me…”rimugino. Meno male siamo a martedì mattina, l’ora della verità con quella donna è vicina.
“Ma guarda te, proprio a me doveva capitare…ma che dico? Di ragazze ne ho avute diverse ma non ne ricordo, piuttosto mi torna in mente sempre lei, quella con i capelli bianchi, le giarrettiere nere e quel maledetto profumo, che m’abbia stregato?”
Mi siedo alla scrivania a dare ordine alla posta, c’è roba dell’INPS e altre fregnacce, molta pubblicità. L’Ufficio o scannatoio è una stanzina di tre metri quadrati, con il letto che serviva a Peppe per riposarsi, ve l’ho detto. Guardo con più interesse, ai muri ci sono, oltre a un calendario pornografico pubblicitario con delle Farfalline di gran mondo, delle vecchie foto di corridori pistoiesi, Serafino Biagioni al Giro di Francia e Loretto Petrucci, un altro corridore ciclista del 1952 di Pistoia che ebbe delle vittorie importanti, una foto lo immortala nel mentre vince la Milano-Sanremo. Ma…a cosa penso? Improvviso chiudo l’officina e vado, a piedi, a un vicino negozio di vernici con un padrone che conosco. Faccio la spesa ed esco con un secchio di Bianco Extra da muri e diverse pennellesse larghe e fini. M’è venuto in mente d’imbiancare lo scannatoio. Pensate che sia impazzito? Pensate che voglia dare retta a Rebecca? Sì, mi sento anormale e insomma… via, il tempo di giugno è discreto, apro la finestra, povera finestra che non si ricordava neppure di avere i gangheri che glielo permettessero da anni, e aspiro una boccata d’aria. “Darò un po’ d’olio a queste cerniere.”suppongo. E comincio a imbiancare. I muri sono sudici, forse era meglio se prima l’avessi grattati; la pennellessa scivola che è una bellezza, al padrone del negozio di vernici, che è un mio conoscente, gli ho detto che voglio fare un bel lavoro con una passata sola e lui mi ha dato la migliore vernice, un po’ carina, mi ha chiesto quando può portarmi la sua Lancia Beta HPE a rifare i freni. “Quando vuoi,”rispondo,“ho anche delle pasticche Ferodo inglesi per la Lancia Beta HPE che sono migliori delle originali, l’ho prese da un viaggiatore di commercio che è passato di rimbalzo, accidenti a quando non gli ho comprato tutto il camioncino.” E l’ho salutato, con quelle pasticche mi sono guadagnato parecchi clienti, frenano meglio e mi costano meno. Dopo quattro ore di pennellesse ho finito, l’ ufficio non si riconosce, aspetterò che asciughi e domani rimetterò al loro posto le fotografie di Petrucci, Biagioni e il calendario porno. Guardo lo scannatoio e mi sembra di aver fatto un buon lavoro, do un po’ d’olio ai gangheri della finestra e levo il nylon che ho messo sul letto a protezione. Ho da pensare alla Ford del postino, una Fiesta che mi fa ammattire con l’accensione. Alle 7 di sera mi lavo e vado in centro, faccio un po’ di spesa anche se mia madre non mi ha detto niente, ma, sulla Sala, ho sentito un odore di Coppa di testa di maiale e non ho resistito, l’ho comprata; chissà la mamma come sarà contenta. Non vi ho mai detto nulla di casa mia? E’ vero, mio padre era un bravo babbo ma me lo sono goduto poco; mia madre ricama, credo che sia la migliore genitrice possibile anche se sparisce ogni tanto di domenica, va con sua sorella e suo marito a pescare con il loro club, mi vuole bene e quando va via mi lascia pranzo e cena. Oggi è mercoledì e aspettare mi dà noia, finalmente si saprà quale mistero sta dietro alla mancanza di loquacità di quella grande Farfallina della Sara. C’è un’altra stranezza nei miei rapporti, Rebecca non si sente da due giorni. Telefonate in arrivo? Spero sempre che siano di lei e invece, sembra che sia in ferie. Mah, se son rose fioriranno, mancano dieci minuti alle sette, nel pomeriggio ho guardato spesso l’orologio. L’orologio cinese ha preso un colpo, mi scivolò la mano nello stringere un bullone di una marmitta e la botta colpì lui, un orologio che non mi ha mai tradito, il vetro è rotto e non si trova il ricambio. Lo ricomprerò uguale al mercatino americano di Livorno. Mi torna in mente l’amico che ho rivisto ieri, giocavamo insieme nella Libertas Pistoia, io centravanti, lui mezzala, era forte e mi dava delle palle…l’ho sempre ringraziato. Mi ha sorpreso, nel parlare chiamava il Cincero col nome di Avvoltoio, gli ho chiesto il perché e mi ha raccontato che è stato all’Ospedale, ha rammentato che un uomo, soprannominato l’Avvoltoio, lo conoscevano tutti, un poveretto che andava a comprare sigarette e giornali per i degenti, aveva un occhio solo e ci vedeva meglio che con due, diceva lui. Per questo, per la similitudine col suo Cincero, per non avere che un occhio solo, ha cominciato a chiamare il suo arnese col nome di Avvoltoio e io ho fatto uguale a lui, tanto mi è piaciuta questa storia.

Prof. Franco Antonelli